Turoldo, la fede è impegno – Di Gianfranco Ravasi – gennaio 2020 Corriere della Sera
Turoldo, la fede è impegno
Corriere della sera, 6 gennaio 2020
di Gianfranco Ravasi
La mia amicizia con lui era nata in seguito alla pubblicazione negli anni 1982-1984 di un mio sterminato commentario ai Salmi: tre volumi di oltre tremila pagine che Turoldo aveva studiato, riletto e approfondito. Per questo mi aveva cercato e aveva iniziato una consuetudine durata poi per anni. Nel pomeriggio di ogni domenica scendeva dalla sua abbazia di Sotto il Monte, il luogo di nascita di san Giovanni XXIII, a casa dei miei familiari a Osnago (Lecco), ove io mi recavo dal Seminario Arcivescovile Milanese in cui allora insegnavo.
In quelle ore parlavamo a lungo, egli mi leggeva i suoi testi, accoglieva con un’umiltà assoluta anche le mie riserve, ci si inoltrava lungo i sentieri teologico-letterari di altri libri biblici che io allora stavo commentando come Qohelet e il Cantico dei cantici, destinati a diventare materia di altre sue riflessioni o poesie.
Di quei pomeriggi, che mi resero padre David amico e interlocutore intimo, c’è una testimonianza curiosa che fu anche la «sorpresa» estrema che egli volle farmi. Infatti alla sua ardua opera postuma, edita nel 1992, Il dramma è Dio (ma il titolo originale era Il dramma è di Dio), aveva apposto una lettera a me destinata ma che aveva voluto rimanesse segreta fino al momento della pubblicazione del libro. La lessi, perciò, quando ricevetti l’opera stampata ed egli era morto da un paio di mesi. Eccone il testo, datato «Festa dell’Ascensione 1991».
«Gianfranco, mi perdonerai di chiamarti sempre così: amico delle mie — delle nostre — domeniche. È per riconoscenza di questa amicizia e di quei nostri conversari, nell’atrio della tua casa, smentendo che quella sia l’ora del “demone meridiano” (tanta invece era la serenità e la gioia di quei nostri amati colloqui); è per sdebitarmi, dico, del dono di una così ricca amicizia che ora ti dedico questo lavoro… convinto che mi perdonerai di aver osato apparire come un invasore del tuo campo biblico. Ma tu sai che non è vero. Tu più di altri sai con quanto timore e tremore mi accosto a questi abissi; e quanto mi conforta il rispetto verso di voi, insostituibili interpreti. È poi noto che scrivo soprattutto per gli amici…; per gli amici antichi, quelli della resistenza per l’“Uomo”: presenze che sempre evoco nelle mie dediche, al fine di continuare appunto a “resistere”».
Da queste righe emerge in modo nitido il nesso intimo tra amicizia e fede, tra dialogo e ricerca sulla Parola di Dio, tra poesia e confessione. Un connubio che aveva retto tutta la sua vita, a partire dalla sua nativa Coderno in Friuli fino nei sotterranei della lotta antifascista, tra gli echi delle volte del Duomo di Milano ma anche nella familiarità calda di Nomadelfia, dall’amatissimo ritiro per nulla eremitico di Sotto il Monte alle sale, alle aule, alle piazze vocianti, da un lontano Canada fino ai piccoli centri, fino appunto al villaggio bergamasco o a quelli di altre regioni italiane.
La sua figura imponente e sanguigna, dalla quale fuoriusciva una voce da cattedrale o da deserto, temperata dall’invincibile sorriso degli occhi chiari, aveva proprio nella Parola biblica il suo alimento vitale. «Servo e ministro sono della Parola», si era autodefinito, consapevole che ormai tutto il suo essere si era trasformato in «una conchiglia ripiena» dell’eco di quella parola infinita come il mare.
A lui era profondamente caro il verso di un altro suo amico, unito nella fede e nella poesia, Clemente Rebora: «La Parola zittì chiacchiere mie». Per questo un suo affettuoso ammiratore — interamente ricambiato — come il cardinale Carlo Maria Martini, nella presentazione del volume Opere e giorni del Signore, aveva comparato padre Turoldo a Efrem Siro e a Romano il Melode, Padri della Chiesa d’Oriente, straordinari autori di omelie bibliche cantate.
Bisognerebbe in modo sistematico rileggere l’immensa produzione poetica turoldiana proprio inseguendone la filigrana biblica. Per quel poco che ho potuto annotare nelle mie letture, il flusso letterario di questo «cantore delle dense ore di Dio» copre l’intera sequenza delle Sacre Scritture, dalla Genesi, con l’irrompere della creazione dal grembo del nulla, fino all’Apocalisse e al suo sospiro finale del Maranathà, «Vieni Signore», passando soprattutto attraverso il suo costante compagno di viaggio, il libro dei Salmi.
La pagina turoldiana è come un intarsio di citazioni, allusioni, ammiccamenti, evocazioni bibliche: il suo è lo spartito della Parola divina orchestrata in parole. Per usare liberamente un’immagine dello scrittore mistico ebreo Abraham J. Heschel, potremmo dire che ogni poesia di padre David è da esaminare come una foglia alla trasparenza della luce solare: se il tessuto connettivo è la storia con le vicende personali e sociali, il reticolo che sostiene, alimenta e impedisce ogni raggrinzimento o dissolvimento è la Scrittura Sacra.
Questo intreccio tra Parola e parole, tra storia divina e storia umana, fu sempre anche alla radice del suo impegno nell’incarnazione del cristianesimo. Un impegno che si attestava spesso sulle frontiere più roventi o nei territori più disabitati da presenze religiose. I rischi di queste incursioni erano evidenti e sono a tutti noti. Ma padre Turoldo ha sempre tenuto alta la fiaccola della speranza cristiana, convinto che Dio è con noi «vagabondo/ Una voce dal roveto ardente a camminare sulle strade,/ a cantare con noi/ i salmi del deserto». Convinto anche che la meta ultima della storia è trascendente, là dove «le lettere del divino Alfabeto/ saranno in fiore per il Cantico Nuovo».
E dobbiamo riconoscere che nei nostri giorni così superficiali, chiusi e persino ottusi, sarebbe ancor più necessaria la voce di Turoldo che inquietava la pigra pace delle coscienze col fuoco di quell’Alfabeto che risuona dal roveto ardente.