“Io capitano” – di Stefano Evangelista

“Io capitano” – di Stefano Evangelista

“Io capitano” – di Stefano Evangelista

 

“Il tesoro nascosto non è tra le poste della gara, non è tra le voci del fisco, non è negli imprevisti delle avventure puramente umane. E’ come sottoterra, è come sotto le acque. 

Ma chi l’ha scoperto, vende tutto, si fa povero ma cammina nel mondo come un re delle fiabe. Beati i poveri, cioè coloro che tutto vendono per quel tesoro, senza del quale la terra non sarebbe che una inconsistente illusione”. Ernesto Balducci 

Da “Pensieri per un anno”, ed. Fondazione Balducci 

 

 Nel film “Io capitano” di Garrone, che ha avuto 12 minuti di applausi al festival di Venezia, il tesoro nascosto è la speranza di due giovani senegalesi – Seydou Sarr e Moustapha Fall – di migliorare le proprie condizioni di vita, insieme ad altri migranti che fuggono da guerre o per grandi difficoltà economiche.

La storia, tratta dalle parole di chi il viaggio lo ha compiuto davvero, è l’odissea dei due giovani senegalesi raccontata nella loro lingua, il wolof, dal momento in cui di notte, con dolore e con determinazione, lasciano la casa materna per raggiungere un terra in cui realizzare il loro sogno: affermarsi come musicisti e “firmare autografi ai bianchi”.

Le nazioni attraversate sono tante, così come le città: Dakar, Agadez, Tripoli. Tra di loro, il deserto. Una lunga marcia verso il mare, quella dei protagonisti, diretti sulle coste che si affacciano su quel tratto blu, largo una manciata di miglia, che divide la Libia dalle coste italiane. Un viaggio in cui incontrano la nascita e la morte, la malvagità, la separazione, l’abbandono la paura e il coraggio. E proprio il coraggio muove Seydou a diventare il capitano dell’arrugginita imbarcazione con cui tentano l’approdo in Italia. In mezzo al mare, di fronte alla richiesta d’aiuto, l’Occidente si palesa solo attraverso una voce che parla da un vecchio telefono: “Le acque in cui state navigando non sono di competenza dello Stato italiano.” La barca è in acque territoriali maltesi, ma Malta indugia, temporeggia, sembra non voler intervenire. E’ allora che Seydou, timoniere di una barca senza mai averne guidata una, decide di diventare il capitano, colui che si assume la responsabilità di procedere.  E’ commovente assistere al momento in cui un adolescente, di fronte a una situazione drammatica, più grande di lui, su cui non ha alcun controllo, decide comunque di agire perché così facendo può salvare le vite di tutte quelle persone ammassate e ormai disperate.  Solo quando la costa della Sicilia è ben visibile l’elicottero della guardia costiera arriva in soccorso. Fino a quel momento, dall’Italia non si era sentito neanche un sospiro. Nel corso delle nostre giornate, quando leggiamo le notizie sull’ennesima tragedia e la consueta statistica da aggiornare sui morti, vediamo il film di Garrone. Lo vediamo, però, partendo dal suo epilogo. Per noi quelle vite assumono una forma solo quando il loro percorso giunge all’ultima tappa. A quel punto risaliamo, come seguendo il corso di un fiume, fino ai luoghi da cui provengono. Ma solo dopo averli visti in mare. “Dei disperati”, “morti di fame”, “criminali”: definizioni vuote e inutili, che cancellano tutto ciò che si sono lasciati alle spalle e che il film ben descrive, come la grande solidarietà fra migranti per la sopravvivenza o la cattiveria di sfruttatori e malavitosi che lucrano su queste povere vite.

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