3 Novembre 2024, 31° Domenica T.O.

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Prima Lettura Dal libro del Deuteronomio Dt 6, 2-6
Salmo 17
Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei, Eb 7, 23-28

 

Dal Vangelo secondo Marco Mc 12, 28-34
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Gesù è sacerdote universale. Il sacerdozio è una categoria dell’esperienza umana
fondamentale. Nella storia non si trova popolo che non abbia avuto il suo momento
religioso e la sua casta che deve accudire a questa mediazione fra il Dio invisibile e
il popolo. Questa casta ha degli obblighi, come quello dei sacrifici, ed esercita un
potere tanto più forte in quanto le sue leve sono quelle delle coscienze. Cosa è
venuto a fare Gesù? A dare una nuova vernice al sacerdozio, fosse pure quello
giudaico? No! Si dice che Lui è l’unico sacerdote, come dire: il sacerdozio è chiuso.
Il sacerdozio è chiuso nel senso che il rapporto con Dio non deve passare attraverso
questi canali strutturali, è un rapporto aperto a tutte le coscienze. Il sacerdozio era
una funzione, per usare un termine colto, della «religione chiusa» ed invece Gesù è
venuto ad aprire le coscienze all’unico vero Dio perché Egli è sacerdote secondo
Melchisedec, senza padre, senza madre e senza generazione, come dire: non è
interno a nessuna tribù. Nessun popolo può dire che «Gesù è nostro», perché Egli è
l’ Uomo e ovunque l’uomo entra nel moto dell’esistenza ivi è Gesù, in questo senso.
Le mediazioni sacerdotali sono quindi chiuse. Mi domando: sono chiuse? Non sono
chiuse! Occorre allora che noi viviamo questo rapporto — abbiamo detto che
abitiamo sulla linea di demarcazione — sentendo che il passato sopravvive e
aprendo il passato a questa diversità, a questo futuro che vuol dire tantissime cose.
La fede si fa omogenea alla vastità della storia e degli uomini. Come possiamo noi
distinguere i popoli l’uno dall’altro in nome di una loro maggiore o minore
vicinanza al vero Dio? Come possiamo noi presumere di essere mediatori necessari
fra le coscienze e Dio se con Gesù il sacerdozio si è chiuso e comincia un accesso
nuovo al Padre? Certo, questo accesso, nella sua forma compiuta, è quello offerto
dalla sua parola, dalla sua esemplarità solo che questa sua mediazione non è
esclusiva ma inclusiva di tutto ciò che in qualche modo appartiene alla finalità del
regno che, come abbiamo detto tante volte, laicamente parlando, è la pace nel
mondo, senza aggettivi né di durata né di qualità, è la fraternità, è la giustizia, è la
vittoria sulla morte come ultima speranza impossibile-possibile. Questa universalità
di Gesù Cristo è alla radice del conflitto che viviamo. Come Gesù visse nel suo
tempo, frequentò il tempio, osservò le leggi però era «oltre», così succede a noi:
viviamo nel nostro tempo, nella nostra realtà storica che ha delle leggi però non
dobbiamo lasciarcene imprigionare, dobbiamo stare «oltre». Sembra poco, ma è
tutto. La vera fedeltà è quella dinamica che rimanendo dentro la acerbità del tempo
lo fa maturare per dischiuderlo. Essere maturi non significa saltar fuori dalle
determinazioni del tempo in una vuota universalità dove batteremmo l’aria, ma
restare nelle viscere concrete della storia «giudaica». Ogni popolo ha una sua storia
fatta di coesioni, di tradizioni, di memorie e su questa storia non dobbiamo gettare
la derisione: essa è carne della nostra carne, ossa delle nostre ossa. Quel che
occorre è non chiuderci dentro di essa, sentire che il senso vero di quello che
abbiamo vissuto è oltre. Questo «oltre» è importante, per le proiezioni che ha
nell’illuminare i problemi concreti del tempo. Dovendo essere rapidamente
esemplificativo, dirò che anche all’interno delle chiese c’è questa dualità. C’è chi
vuole ristabilire il modello della tribù. Ad esempio, si torna ad usare la parola
«sacerdoti» per parlare dei ministri, mentre il Concilio ha avuto il pudore di non
usarla, dato che essa sta bene solo a Cristo che ha assorbito in sé tutte queste
funzioni e le ha comunicate a tutti coloro che sono nella fede. Questa dialettica e
presente e si lacera. La lacerazione è storicamente inevitabile perché non si passa
da un’epoca all’altra per diktat che venga dall’alto, ma solo per maturazione delle
coscienze. E questa la faticosa via, l’unica produttiva, che dobbiamo seguire nel
nostro cammino storico.

Da “Il Vangelo della pace” vol.2 anno B

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