27 ottobre 2024, 30° Domenica T.O.

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Prima Lettura Dal libro del profeta Geremia Ger 31, 7-9
Salmo 125
Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei, Eb 5, 1-6

Vangelo Dal Vangelo secondo Marco Mc 10, 46-52

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Possiamo distribuire i tre brani in modo che ne risultino le situazioni di salvezza che essi esprimono
e che sono fra loro concatenate. Il brano di Marco ci narra di una salvezza individuale, la salvezza di
un cieco, che non è soltanto salvezza dalla cecità fisica, ma anche da quella spirituale: nello stesso
tempo il cieco acquista la vista e la fede. Il primo brano ci parla, invece, di una salvezza politica. Il
popolo di Giacobbe è schiavo a Babilonia ma Dio lo salva, salva quel «resto», e con quel resto
ristabilirà nella sua pienezza e nella sua gloria il suo popolo. Partiti nel pianto essi torneranno nella
consolazione. La lettera agli Ebrei sembra collocarci fuori di questo asse ma in realtà, parlandoci di
un sacerdozio universale, quello di Gesù Cristo che abolisce ogni altro sacerdozio, che si sottrae alle
angustie di una appartenenza particolare come quella del popolo giudaico, rompe forse la più
invisibile ma anche la più invincibile delle prigionie: quella delle coscienze che trovano la loro
schiavitù proprio dove ritengono di trovare la loro gloria…Ho pensato di leggere in questa ottica i
brani di oggi anche per rispondere ad un problema che ci ritorna spesso sotto l’attenzione, perché è
senza dubbio centrale nell’itinerario di fede e di umana crescita che stiamo vivendo oggi. Quando
(ricordo quei tempi) si parlava della salvezza degli uomini si pensava, in maniera immediata e anche
esclusiva, alla loro salvezza in rapporto all’eternità e questa salvezza, così si diceva in una ottica
rigidamente ecclesiocentrica, non poteva darsi fuori della Chiesa: extra ecclesiam nulla salus, fuori
della Chiesa non c’è salvezza. Partivano da questa affermazione i tentativi, piuttosto complicati e artificiosi, dei più generosi dei teologi — dico dei più generosi — che trovavano degli espedienti per
garantire una salvezza a quelli che si trovavano fuori della Chiesa. Quest’ottica, ribadita da una lunga
tradizione, da solenni dichiarazioni, in qualche modo sigillava, in maniera sacra, una schiavitù
spirituale perché impediva di assumere come unico punto di vista, veramente conforme l senso della
rivelazione cristiana, non la Chiesa ma l’opera di Dio sul mondo. Il punto di vista da cui guardare è
l’opera di Dio sul mondo, di un Dio che non fa discriminazione di persone, di un Dio nella cui
volontà amorosa si muovono, come pulviscolo nel sole, tutte le creature senza distinzioni. Se
adottiamo questo punto di vista, allora all’improvviso ci accorgiamo che le barriere che avevamo
creato, gli «steccati sacri» che erano il sostegno del nostro orgoglio particolaristico, vanno
considerati come un residuo di peccato. Proviamoci allora a ripercorrere un momento questa
prospettiva per vederne le risultanze per la nostra vita intellettuale, morale e religiosa. Intanto
bisogna insistere sul sacerdozio di Gesù Cristo. Il linguaggio che usa la lettera agli Ebrei è
naturalmente un linguaggio forgiato sulle incudini rabbiniche, ma il senso è molto chiaro. Quando ci
si domandava (e ci si domanda ancora) se le religioni non cristiane salvano, sono anch’esse vie di
salvezza, si partiva da un’ottica ecclesiocentrica che non è il punto di vista di Dio e si esaltava un
sacerdozio che chiamerei «il sacerdozio di Aronne», cioè il sacerdozio di una tribù, quella degli
Ebrei, che ha avuto il suo senso in una economia di salvezza, ma che è, in questo brano, considerata
superata in quanto, nel linguaggio simbolico in uso nelle scuole rabbiniche, Melchisedec era il
sacerdote cosmico, che non apparteneva a nessun popolo e quindi potrebbe esser detto ebreo,
induista, buddista… perché è al di là delle diverse strategie di salvezza in cui si colloca il cammino
dell’umanità vista nel suo insieme. Dire che Gesù è sacerdote secondo Melchisedec vuol dire
declassare, ricollocare nel provvisorio storico tutte le forme in cui si esprime l’ansia profonda
dell’uomo verso Dio, in mille modi invocato, in mille modi rappresentato. Gesù, questo figlio
dell’uomo, non è venuto a corroborare una religione o a fondarla per metterla accanto e contro le
altre perché la sua è vera e le altre sono false. Questa è l’ottica di Aronne. Noi siamo dentro questa
ottica. La nostra mente ha contratto forme inconsce per cui noi ragioniamo ancora come se non
fossimo stati liberati da questa chiusura, confrontandoci con le altre famiglie umane, in termini di
verità e di errori e quindi abbiamo dentro di noi tutto il necessario, quando si dà l’occasione, per
manifestare, dissimulata da un orpello aureo di fede in Dio, la nostra aggressività. Noi siamo i figli
delle guerre di religione. La salvezza di cui in questo brano si parla è la stessa che Gesù, nella sua
vita di uomo, ha manifestato nel suo comportamento, fustigando in mille modi la presunzione
giudaica di essere in possesso delle promesse di Dio. E stato crocifisso proprio per questo. Quando è
stato cancellato dalla tribù giudaica Egli è diventato il centro di attrazione: «Quando sarò crocifisso
attirerò tutti a me». E quello il momento della universalità che abolisce i particolarismi, che colloca
Gesù Cristo nel cuore del cuore dell’uomo, là dove l’uomo, qualunque egli sia, trova se stesso nella
sua fragilità creaturale, quando dall’essere passa al non-essere, entra nell’ombra in cui tutte le
creature, gialli, neri, bianchi, ricchi, poveri si definiscono per quello che sono. L’universalità
negativa è il luogo in cui finalmente ci manifestiamo. Il più grande magnate dell’economia e il più
affamato degli uomini in quel momento sono uomini, toccano nel negativo la loro sostanza di
nonessere. Gesù dunque non è venuto come fondatore religioso, è venuto come uomo nella fragilità
umana collocando il segno della universalità — perché quel nulla che è la morte fu abitato
dall’amore — nel dono totale di sé. Questo è il suo «sacerdozio». Ma voi vedete come già la parola
si annulla. La distinzione fra sacerdote e laico, fra sacro e profano sono distinzioni nell’ottica di
Aronne che sopravvive in noi, ma quel che deve restare è questa universalità. Il contatto con Dio,
l’accesso al mistero di Dio, si ha attraverso l’abolizione delle nostre angustie mentali, pratiche e
rituali, attraverso la relativizzazione, che è la misura umana, di ciò che nel provvisorio facciamo e
diciamo, sempre vòlti verso quella salvezza ultima di cui non sappiamo parlare se non per simboli e
di cui forse dovremmo parlare — mi si permetta l’apparente antinomia — in un profondo silenzio.

Da “Il Vangelo della pace” vol.2 anno B

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