STIGLITZ, È ORA DI CONDIVIDERE IL PIANETA – Gianrico Carofiglio (da Robinson 30.04.2020)
30 APRILE 2020
È ora di condividere davvero il pianeta: “Da questa epidemia possiamo imparare l’importanza della scienza, il ruolo strategico del settore pubblico e la necessità di azioni collettive. L’obiettivo deve essere la cooperazione globale”. Le previsioni di un Nobel a uno scrittore
DI GIANRICO CAROFIGLIO
Joseph Stiglitz trascorre il lockdown nel suo appartamento nell’Upper West Side a New York. Dalle finestre può vedere il fiume Hudson e il Riverside Park e, in tempi normali, gli ci vuole solo una breve passeggiata per arrivare al suo ufficio, nel campus della Columbia University. «In primavera la passeggiata nel parco è bellissima. Ci sono i narcisi, tanti altri fiori e alberi fioriti, soprattutto meli selvatici e ciliegi. È il mio periodo preferito, ma in questi giorni c’è solo un inquietante silenzio, punteggiato, di tanto in tanto, dalla sirena di un’ambulanza». Settantasette anni, nato a Gary, Indiana, madre insegnante e padre assicuratore, il premio Nobel per l’economia che ha lavorato al fianco prima di Bill Clinton e poi di Barack Obama dice di continuare ad avere «giornate febbrili» anche se non esce quasi mai di casa. «Faccio lezione e partecipo a seminari online. Parlo con tanti amici sparsi per il mondo e anche loro chiusi in casa. Cerco di finire un libro sull’economia delle disuguaglianze e alcuni articoli teorici».
Facciamo un passo indietro, ovviamente con il senno di poi. Se lei avesse avuto il potere di prendere decisioni, cosa avrebbe fatto e quando lo avrebbe fatto?
«Avremmo dovuto agire più rapidamente. Negli Stati Uniti avremmo dovuto iniziare molto prima le pratiche di distanziamento, così come avremmo dovuto garantire la produzione di test, dispositivi di protezione, apparecchi per la ventilazione. Quello che invece ha fatto, anzi non ha fatto, l’amministrazione Trump è imperdonabile. È arrivata a negare che ci fosse un problema anche di fronte all’evidenza, incoraggiando Fox News a diffondere grave disinformazione. Il presidente avrebbe dovuto riunire un consiglio di saggi – scienziati, epidemiologi, esperti di salute pubblica, economisti – per decidere una strategia, invece di denigrare sistematicamente la scienza. Tuttavia il fallimento di Trump non sorprende: per tre anni ha cercato di tagliare le spese per la ricerca, ha ridotto i fondi dell’agenzia governativa per la prevenzione delle malattie, ha smantellato il programma di gestione delle pandemie. I repubblicani hanno negato i sussidi di malattia e così molti lavoratori a basso reddito, contagiati, devono andare a lavorare per sopravvivere. Diffondono la malattia perché non possono permettersi di stare a casa. Solo dopo una dura lotta gli ospedali hanno ricevuto rifornimenti, anche se probabilmente in quantitativi insufficienti. Il programma federale per aiutare le piccole imprese è un caos: il denaro va a chi ha già rapporti privilegiati con le banche. Questi interventi avrebbero dovuto fermare la perdita di posti di lavoro. Non ha funzionato: nelle ultime settimane i disoccupati sono saliti a 24 milioni. La speranza di una rapida conclusione dell’emergenza è svanita e la domanda adesso è: quanto andranno male le cose per il resto dell’anno e per il 2021?».
E che risposta si è dato? L’economia – ma anche altre scienze sociali – pretende di disegnare scenari del futuro. Si basa sui dati del passato – quantitativi e qualitativi – per ipotizzare cosa accadrà, ma spesso le previsioni si rivelano errate. Quanto sono in grado le scienze sociali di prevedere e influenzare il futuro?
«Possiamo fare ragionevoli congetture, non molto di più. Tuttavia sappiamo molto sul comportamento degli individui, del sistema produttivo e in generale del sistema economico. Su queste basi possiamo dire qualcosa su quanto accadrà. Per esempio sappiamo che se c’è una recessione prolungata il settore finanziario avrà seri problemi, perché le aziende e le famiglie non potranno pagare i debiti. Sappiamo che se i bilanci delle aziende saltano queste ridurranno gli investimenti e lo stesso vale per le famiglie che ridurranno il loro consumi. Insomma, anche se le origini di questa crisi sono molto diverse da quella del 2008, questo disastro produrrà effetti simili, a meno che non interveniamo in modo appropriato».
I modelli matematici, in economia e in altre scienze sociali, comportano il rischio di generare false sicurezze. Ne stiamo facendo l’esperienza durante questa crisi: anche se basate su modelli all’apparenza rigorosi molte previsioni sull’andamento dell’epidemia si sono rivelate sbagliate. Qual è la sua opinione su un tema, certamente tecnico e teorico ma che diventa sensibile quando applicato all’economia e soprattutto alla salute?
«La matematica è un linguaggio che ci permette di vedere relazioni complesse – o a volte relazioni semplici ma estremamente sottili – con una chiarezza che altrimenti non avremmo. I buoni modelli matematici tengono conto dell’incertezza. I problemi non dipendono dalla matematica, ma da chi la usa in modo sbagliato. Pensi al modello neoliberale – piuttosto semplicistico – o anche ad altri modelli apparentemente più sofisticati come il Dsge (dynamic stochastic general equilibrium), usati da molti economisti e da alcune banche centrali. La questione non consiste nella loro formulazione matematica ma nelle ipotesi assurde che essi includono. E nel fatto che alcuni decisori politici prendono questi modelli più seriamente di quanto non meritino. Come ho detto, la matematica ci serve a esplorare questioni di cui altrimenti potremmo non accorgerci. L’individuazione di tali questioni ci aiuta a valutare il realismo e il grado di validità del modello. Lo schema neoclassico previde, per esempio, che gli scambi fra paesi sviluppati e paesi in via di sviluppo avrebbero ridotto le retribuzioni dei lavoratori non specializzati nelle nazioni sviluppate. Era un avvertimento di cui avremmo dovuto tenere conto. D’altro canto il modello Dsge affermava che non potessero verificarsi bolle finanziarie, ma chiunque avesse letto i libri di storia sapeva che bolle finanziarie ve n’erano state, eccome. Insomma, il modello aveva implicazioni che erano evidentemente sbagliate e questo avrebbe dovuto costituire un monito a non prenderlo seriamente».
C’è chi dice che l’irruzione di questo virus sulla scena del mondo abbia un senso, quasi una dimensione di necessità: costringere l’umanità a rallentare, decrescere, ridefinire i modelli di sviluppo, ripensare la cosiddetta globalizzazione. Io non amo queste interpretazioni spesso viziate da una certa dose di moralismo paternalista. È vero però che quanto sta accadendo potrebbe essere anche un’opportunità. La città di Amsterdam, per esempio, ha annunciato che adotterà il cosiddetto “doughnut model” proposto dall’economista Kate Raworth per ridefinire il concetto di sviluppo dopo il coronavirus. Il modello cerca di superare l’idea che la crescita sia l’indicatore più importante di un’economia sana e si concentra sulla soddisfazione dei bisogni delle persone in termini ecologici e di prevenzione contro il degrado ambientale. Lei che cosa ne pensa?
«Rahm Emmanuel, capo staff del presidente Obama, diceva che non bisognerebbe mai sprecare una crisi, ma per sfortuna questo è esattamente quanto è accaduto. Io credo che questa crisi, per molti aspetti più profonda e con risvolti di gran lunga più intensi, abbia molte cose da insegnarci: l’importanza della scienza, il ruolo strategico del settore pubblico e la necessità di azioni collettive; le conseguenze disastrose delle disuguaglianze e della negazione dell’accesso all’assistenza sanitaria come diritto umano fondamentale; i pericoli di un’economia di mercato dalla vista corta, incapace di resilienza.
La pandemia è una crisi che il mondo deve fronteggiare unito così come la crisi climatica, che non è sparita e anzi potrebbe essere causa di altre epidemie. Dobbiamo imparare a condividere il pianeta e questo richiede una cooperazione che Trump in questi anni ha fatto tutto il possibile per minare. Il compito principale del prossimo presidente sarà di ripristinare la cooperazione globale».
La pandemia ha mostrato in modo fisico la vastità e le connessioni della globalizzazione e anche la sua vulnerabilità. Ci sono degli antidoti contro i pericoli delle strutture gigantesche e dell’interdipendenza globale? È ragionevole parlare di una dimensione ottimale delle comunità in vista del futuro?
«Viviamo tutti in comunità multiple. Io sono newyorchese e orgoglioso di esserlo, orgoglioso di come la nostra città ha risposto unita alla pandemia, così come fece dopo l’11 settembre. Ma noi siamo parte anche della comunità nazionale e di quella internazionale e certo ci sarà bisogno di più cooperazione globale per affrontare la pandemia. Ma questa emergenza ha mostrato che, a dispetto della globalizzazione, lo stato nazione è ancora la fondamentale unità di azione politica».
Nel suo ultimo libro “Popolo potere profitti”, in particolare nel capitolo dedicato al risanare la democrazia, lei si sofferma sulle gravi patologie della democrazia americana. Fra queste gli ostacoli che in molti Stati vengono frapposti addirittura all’esercizio del diritto di voto, una cosa che mi colpisce moltissimo.
«Il problema fondamentale negli Usa è l’esistenza di un gruppo di minoranze che pretendono di imporre i loro punti di vista alla maggioranza: antiabortisti che negano alle donne i loro diritti di scelta, lobby delle armi che negano il diritto a vivere in condizioni di sicurezza e soprattutto ricchi che non solo vogliono conservare la loro ricchezza, ma vogliono arricchirsi ulteriormente a danno di tutti gli altri. Vogliono conservare una società diseguale, con stipendi che sono di gran lunga al di sotto della soglia di sopravvivenza, senza accesso alle cure per i poveri, senza contrattazione collettiva e con il diritto delle grandi imprese di approfittare del potere del mercato, di abusare dell’ambiente, di sfruttare i più vulnerabili. Questa è una distopia e mantenerla in vita in un sistema democratico è difficile. Lo si può fare solo con la soppressione del diritto di voto e la distorsione della democrazia realizzati attraverso la manipolazione dei collegi elettorali e altri simili imbrogli. L’unico modo per opporsi a tutto questo è rendere i cittadini consapevoli di quanto sta accadendo e mobilitarli in difesa della democrazia per restaurare la regola: potere alla maggioranza temperato dai diritti delle minoranze. Nell’attuale sistema una minoranza controlla il governo e ha privato la maggioranza delle sue legittime prerogative».
Dall’America all’Europa. Alcuni leader populisti in passato hanno citato alcune sue affermazioni in chiave anti euro. Qual è la sua opinione sul futuro della moneta unica e delle istituzioni europee?
«L’Europa sta sostenendo un difficile esame. Le nazioni europee avranno sufficiente solidarietà e coesione per aiutarsi a vicenda? Saranno capaci di attivare gli eurobond per contrastare gli effetti dell’epidemia e rimettere in piedi le economie devastate? Se non sarà così l’euroscettiscismo potrà solo aumentare. L’euro è una costruzione lasciata a metà. Ci sono due alternative: più euro o anche meno euro. Ciò che è insostenibile è il rimanere a metà strada. Personalmente spero che l’Europa faccia i passi necessari per un’eurozona più forte».
Questo Primo Maggio è diverso, cade mentre molte attività economiche sono ancora ferme e c’è grande preoccupazione per l’occupazione. Pensa che alcuni dei cambiamenti nel modo in cui lavoriamo, come quello da remoto o flessibile a cui ci ha costretto il coronavirus diventeranno permanenti? E crede che questa crisi abbia messo in evidenza la necessità di un reddito universale?
«Molti comportamenti rimarranno. Ci saranno più video conferenze, meno viaggi, orari di lavoro più flessibili. Ma non credo che si arriverà a forme di reddito universale. Il lavoro è ancora importante per il senso di benessere della maggioranza delle persone. E c’è così tanto lavoro da fare: costruire una nuova economia verde, per esempio».
La mia opinione è che chi si occupa di discipline sociali possa affrontare davvero la complessità, come la sfida di costruire un’economia verde di cui accennava adesso, anche e soprattutto dedicandosi a letture che in apparenza non hanno niente a che fare con la sua disciplina. Leggere buona narrativa ci mette in contatto con l’idea della complessità, ci dice che esiste una pluralità inevitabile di punti di vista sul mondo, ci aiuta a sfuggire le rigidità interpretative che derivano dall’invadenza della tecnica. Che quasi mai, per altro, è pura tecnica e include sempre una dimensione ideologica. Oltre ai testi della sua materia che cosa ama leggere?
«L’economia è una scienza che studia come gli individui e le società distribuiscono risorse scarse e va studiata in collegamento con tutte le altre scienze sociali. Per quanto mi riguarda, la cosa più importante è lo studio della storia. La storia non si ripete mai esattamente uguale, ma riflettere sulle vicende del passato ci suggerisce delle intuizioni sul presente. Per esempio ci sono molte affinità fra l’ascesa dei fascismi e quanto sta accadendo oggi».
Che cosa sta leggendo adesso?
«Al momento sto leggendo tre libri. Nato fuori legge di Trevor Noah, autore sudafricano. Un memoir pieno di humour e di forza su un’infanzia al tempo dell’apartheid. Deaths of Despair and the Future of Capitalism di Anne Case e Angus Deaton, un saggio che parla delle terribili disuguaglianze del mio Paese e che aiuta a capire come un demagogo sia potuto diventare presidente degli Stati Uniti. Infine con il nostro gruppo di lettura abbiamo deciso di rileggere L’amore al tempo del colera. La scelta, per ovvie ragioni, ci è parsa appropriata».
Ci dice un risvolto positivo – se c’è – di questo tempo sospeso?
«Ho modo di dedicarmi un po’ di più alla cucina».