«Cari fiorentini…» – Lettera di Padre Bernardo Gianni – Corriere fiorentino
Nel silenzio della Basilica vi dico: ricuciremo insieme le ali della
nostra città
di Padre Bernardo Gianni – Corriere Fiorentino Marzo 2020
Caro direttore,
Lei mi ha chiesto un pensiero per le lettrici e i lettori del Corriere Fiorentino attribuendomi, come
immagino, autorevolezza di parola non certo per quel poco che io sia, ma per l’eccezionalità del luogo
dove ho il singolare privilegio di vivere. Anzitutto vorrei dirLe di cosa possa essere capace il silenzio di
Firenze ascoltato quassù a San Miniato al Monte. Siamo soliti percepirlo in questa radicale intensità solo
la Domenica mattina molto presto oppure Lall’alba del primo giorno dell’anno, quando è (finalmente)
terminata la comprensibile, ma sostanzialmente illusoria gazzarra notturna. Nessuno avrebbe immaginato
quel primo gennaio scorso di tornare di lì a poco a sperimentare, dopo gli anni oscuri del terrorismo e
della globale minaccia nucleare di Chernobyl, una sensazione così diffusa e incontenibile di smarrimento,
di impotenza di fronte a forze stavolta tanto microscopicamente invisibili quanto quasi invincibilmente
organizzate nello sgretolare ogni nostra certezza di sopravvivenza personale e sociale. Sul fronte di una
simile emergenza sanitaria, ma direi anche culturale, noi ministri della Chiesa, esperti come dovremmo
essere di ben altro Invisibile, abbiamo dovuto cedere alla pur necessaria disciplina di contenimento
relazionale, arrivando a far subire al nostro diletto popolo l’asportazione di quel momento decisivo e
irrinunciabile che è la liturgia, col suo festoso apporto di comunione aggregante e di gioiosa e gratuita
liberazione da tutto quello che altrove si spiega e si vive solo come obbligante efficienza e tecnologica,
connessione di cause ed effetti.
Il mio amato Mario Luzi, per salutare l’imminenza del presente millennio, compose nel 1999 «Opus
florentinum» per raccontare la costruzione della Cattedrale di Firenze quale simbolico e speranzoso
raccordo fra passato e futuro di una intera città. In quei versi sublimi la nostra Santa Maria del Fiore, ma
direi in realtà ogni chiesa del mondo, è immaginata come «laboratorio delle anime», febbrile e
«infuocato» opificio dove «si ricoverano gli sperduti… si raccolgono i relitti, si raggiustano i rottami» e
soprattutto «si fabbricano ali per il volo in questa officina».
Non credo esistano espressioni che ci spieghino meglio cosa sia la chiesa per il Signore Gesù, per il suo
Vangelo di speranza, per papa Francesco, per tutti noi: un porto sicuro, un molo indistruttibile, una quieta
darsena di accoglienza e di mistero dove non solo si riparano le nostre lesioni, ma addirittura si forgiano
ali per donare a ciascuno di noi la possibilità di volare e assaggiare così l’infinito e l’eterno quali reali
potenzialità inscritte nella struttura «aperta» del nostro stesso cuore, vorrei dire il cuore di tutte e tutti,
credenti e non credenti. Proprio per questo ci procura dolore nel dolore dover tenere le chiese chiuse,
sospendere le liturgie, fermare l’approdo dei bastimenti squassati da onde e rocce traditrici in queste ore
di tempesta perfetta e di incontenibile contagio.
Un dolore che umilia la nostra vocazione e il senso stesso della nostra vita e che tuttavia in questi giorni
di quaresima ha un suo sapore pasquale, se siamo memori di quanto il Signore Gesù dice a Nicodemo nel
Vangelo di Giovanni: «Non ti meravigliare se t’ho detto: dovete rinascere dall’alto. Il vento soffia dove
vuole e ne senti la voce, ma non sai di dove viene e dove va: così è di chiunque è nato dallo Spirito». La
terribile gravità dei tempi presenti ci richiede un inedito e profetico coraggio capace di ascoltare e
decifrare il soffio dello Spirito nella sua libertà e capacità di incoraggiare e responsabilizzare tutti i
credenti in Cristo nell’esercizio del loro sacerdozio battesimale.
Ci è di aiuto l’estensione di questa sorta di perenne inazione domenicale, ci è di aiuto il silenzio gravido
di consapevolezza di queste ore così assorte e pacate anche nel cuore solitamente chiassoso della nostra
città, ci è di aiuto la forzosa «clausura» di innumerevoli famiglie, limitazione geografica che noi monaci
conosciamo molto bene quale umiliante ma liberante contrazione dello spazio a disposizione dei nostri
piedi e della nostra fantasia e che tuttavia porta con sé il dono grande di un realismo capace di riconoscere
con uno sguardo attento e colmo di amore che davvero, come amavano dire i Medieovali, nel frammento
si riverbera il Tutto e che, come sapientemente ci avvertiva il grande Romano Guardini, «a partire dalla
Pasqua di Cristo il mondo non è come sembra apparire: è anche questo, ma è al contempo più di questo»,
se abbiamo la pazienza — e adesso finalmente il tempo- di scrutarlo, decifrarlo, attraversarlo non più
come oggetto del nostro abituale uso e consumo rapace, ma come dono, dono delicato, fragile, misterioso,
destinato non solo a me stesso, ma anche agli altri e alle generazioni che verranno.
L’inedita estensione dei perimetri del nostro monastero a tutta la città, immersa in una surreale quiete che
la sottrae alla convulsa frenesia dei tempi abituali e che la invita alla meditazione e all’esercizio della
lettura e di composto e civile dialogo su un destino finalmente percepito come comune, permette dunque
una riscoperta non banale e per certi veri provvidenziali del primato dell’essere sull’avere, della qualità
sulla quantità e innesca meccanismi che possono rendere il nostro stare insieme, pur nel rispetto delle
indicazioni dateci per la tutela della salute di tutte e tutti, quella città «porosa», come Walter Benjamin
amava qualificare l’eccezionale capacità di fraterna socializzazione e mutua capacità di aiuto respirata
nella Napoli del suo tempo.
Papa Francesco in «Evangelii Gaudium» al numero 71 con la sua abituale libertà teologica ed espressiva
ha ribaltato una più che millenaria tradizione spirituale che di fatto quasi imponeva la ricerca di Dio in
cima alle montagne, in isole sperdute e remotissime, nel cuore di fitte foreste, nello stesso deserto
attraversato dal Signore Gesù per rafforzare la sua obbedienza filiale ai disegni salvifici del Padre. In quel
testo straordinario il Papa ci invita a considerare come «abbiamo bisogno di riconoscere la città a partire
da uno sguardo contemplativo, ossia uno sguardo di fede che scopra quel Dio che abita nelle sue case,
nelle sue strade, nelle sue piazze. La presenza di Dio accompagna la ricerca sincera che persone e gruppi
compiono per trovare appoggio e senso alla loro vita. Egli vive tra i cittadini promuovendo la solidarietà,
la fraternità, il desiderio di bene, di verità, di giustizia. Questa presenza non deve essere fabbricata, ma
scoperta, svelata. Dio non si nasconde a coloro che lo cercano con cuore sincero, sebbene lo facciano a
tentoni, in modo impreciso e diffuso».
Sì, carissimo Direttore, in questi tempi di emergenza e di oggettivo pericolo, lo Spirito ci impone di
riconoscere i confini dinamici e invisibili della chiesa capace di includere, riconoscere e finalmente
svelare la presenza del suo Signore anche in quel prezioso «sacerdozio dei fatti» che, alla luce di quanto
dice il Papa e ci raccontano le Vostre concitate cronache, fanno dei nostri ospedali luoghi dove con ore e
ore di insonne, generoso e febbrile lavoro si promuovono «la solidarietà, la fraternità, il desiderio di bene,
di verità, di giustizia» e dove col dono della salute ci verranno restituite persone e storie sulle cui spalle
sarà festa grande cucire tutti assieme quelle ali che nella penombra della nostra desolata Basilica e delle
nostre vuote chiese adesso stiamo progettando e realizzando con turni quasi incessanti di preghiera e
dedizione in queste angosciate e interminabili ore del giorno e della notte.
*Abate di San Miniato al Monte