3 Maggio 2020 – 4^ DOMENICA DI PASQUA – Anno A
3 Maggio 2020 – 4^ DOMENICA DI PASQUA – Anno A
La non-violenza, o meglio, la pace è una qualità non divisibile. Non si può avere una comunità cristiana pacifica con i cappellani militari, con le gerarchie interne e con i diritti dei cristiani usurpati da un clero. Tutti i cristiani sono – questo vien detto ormai con chiarezza dal punto di vista dottrinale – insieme popolo regale, sacerdotale e profetico.
PRIMA LETTURA: At 2, 14a.36-41- SALMO: 22- SECONDA LETTURA: 1 Pt 2, 20b-25- VANGELO: Gv 10, 1-10
La non-violenza non può essere la consegna riservata ad alcune anime, ad alcuni gruppi come nel passato la Chiesa cattolica ha fatto, stabilendo una inconciliabilità tra professione del ministero sacerdotale e uso delle armi. Questa inconciliabilità, fino ad ora privilegio del clero, in realtà è una inconciliabilità radicale tra chi crede e l'arma. La riduzione di una parola destinata a tutti a forma di vita destinata ad un ceto privilegiato è un abuso. Dobbiamo restituire universalità alla parola di Gesù. Questi tremila che domandano: «Che cosa dobbiamo fare?» seppero cosa dovevano fare; dovevano abbandonare una vita di soprusi subiti e fatti, dovevano entrare in una vita di libertà. La libertà in senso evangelico – ne abbiamo udito, oggi, una descrizione straordinaria – è una libertà piena. I cristiani non sono pacifici soltanto perché non rispondono agli oltraggi, come Gesù loro maestro, ma perché non ne fanno al loro interno, perché la comunità cristiana – come ci appare dagli Atti degli Apostoli e come ci è descritta da questo brano del Vangelo di Giovanni in cui essa è raffigurata nell'ovile – è una comunità che non ha all'interno di sé nessun principio di violenza, né fisica né morale. È una comunità di fede basata sul libero consenso. Non ci sono forme giuridiche, gerarchie oppressive, usurpazioni di diritti, c'è una fraternità totale in cui anche chi ha il compito del comando – usiamo pure questa parola – in realtà lo esercita servendo, cingendosi i fianchi, come il Signore, di un grembiule per lavare i piedi. Questa esigenza chi la potrà strappare da noi? L'unità – per esempio – tra mitezza e mancanza di sperequazione economica è una unità che dice molto. Del resto la moderna analisi antropologica e sociale ci ha condotto a capire come certi comportamenti aggressivi sul piano esterno o militare non fanno che tradurre una disfunzione all'interno dei rapporti intersoggettivi, o familiari o comunitari. La non-violenza, o meglio, la pace è una qualità non divisibile. Non si può avere una comunità cristiana pacifica con i cappellani militari, con le gerarchie interne e con i diritti dei cristiani usurpati da un clero. Tutti i cristiani sono – questo vien detto ormai con chiarezza dal punto di vista dottrinale – insieme popolo regale, sacerdotale e profetico. Chiunque spezza questa unità compie violenza già al livello dello spirito e questa violenza poi scatena da sé, per una specie di necessità interna, tutta una serie di manifestazioni che arrivano perfino al fanatismo religioso. Una chiesa che ama il Signore così, non pensa nemmeno a fare un rogo per bruciare un eretico, perché non ha all'interno di sé il principio della violenza. Insisto su questo perché se è vero che oggi, forse più che mai nel passato – dato che ci troviamo all' orlo dell'Apocalisse – l'annuncio evangelico torna ad essere annuncio di pace, allora dobbiamo sentire che se accettiamo questa consegna non possiamo farlo per essere «à la page», per essere di moda, dobbiamo farlo per assumere e testimoniare un progetto di conversione non solo individuale ma comune. Questa conversione è segnata qui stupendamente dall'immagine escatologica dell'ovile. E una immagine finalistica, esemplare. Per la ragione spiegata in partenza, la comunità cristiana non è che una esegesi, una esemplificazione della comunità umana «tout court». Noi non facciamo che anticipare, se ci riusciamo, ciò che deve essere di tutti gli uomini, perché questa destinazione è scritta nell' atto stesso della creazione. Come un astro che si muove secondo una orbita che lo precede così all'interno della comunità – e ciascuno può parlare della sua famiglia, di qualunque aggregazione che voglia ispirarsi a questo principio di pace del Vangelo – l'obbedienza si risolve in una consonanza spontanea. Il pastore conosce le sue pecore, le chiama per nome una ad una; non è un pastore di massa, di categoria, di classi. Il rapporto tra il pastore e le pecorelle è un rapporto personale, nominativo, e questo non per indicare sudditanze affettive che sarebbero fuori luogo, ma per dire che 1'autorità si basa sulla conoscenza interiore. Chi non mi conosce non ha nessun potere su di me. Potrò pagare un tributo di obbedienza giuridica secondo calcoli di opportunità e di necessità, ma il vero potere, cioè la vera unità nasce da questa reciprocità di conoscenza. Qui la parola conoscenza ha una pregnanza che noi intellettuali occidentali nemmeno sogniamo. Conoscenza è compenetrazione reciproca, è addirittura reciproco dono nuziale. La conoscenza è compenetrazione; partecipazione allo stesso ritmo di vita di due, di più. Questo ideale di unità basato sulla conoscenza reciproca è un ideale pacifico. Ogni altra forma di unità in qualche modo deve pagare il tributo alla violenza. Capisco bene che nel cammino storico noi non siamo nella pace, andiamo verso la pace e in quanto non siamo nella pace ci vuole anche il carabiniere, ci vuole anche il codice penale, ci vuole anche la prigione. Riconosciamo però che questo non è l’ordine che sogniamo ma è il tributo che paghiamo ad una società imperfetta…
Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol. 1