26 Aprile 2020 – 3^ DOMENICA DI PASQUA – Anno A
26 Aprile 2020 – 3^ DOMENICA DI PASQUA – Anno A
Quante volte abbiamo provato, nella nostra esperienza privata, questo conflitto (che a volte diventa angoscia e disperazione) tra l'andamento dei fatti e l'attesa legittima della coscienza! È una contraddizione che ha suggerito, a grandi pensatori, il postulato dell'immortalità.
PRIMA LETTURA: At 2, 14a. 22-33- SALMO: 15- SECONDA LETTURA: 1 Pt 1, 17-21- VANGELO: Lc 24, 13-3
C'è una parola di Pietro che ci lega, in maniera immediata, a un sentimento morale che io ritengo come preliminare, necessariamente, alla nostra fede. Senza di esso la nostra fede non ha la forza, la vitalità, la potenza che le sono proprie. «Dio lo ha resuscitato, sciogliendolo dalle angosce della morte, perché non era possibile che questa lo tenesse in suo potere ». È l'impossibilità che la morte domini come domina tutte le creature – il giusto Gesù, vissuto in mezzo agli uomini facendo del bene, promettendo la beatitudine ai poveri ed ai perseguitati. È l'impossibilità che intuiamo ogni volta che vediamo l'ordine delle cose in diretto conflitto con i valori morali, che sono l'ordine della coscienza. Certo, esiste un moralismo che enume rando le cose come vanno, trae l'amara conclusione – che del resto la filosofia conosce – che non c'è posto per gli uomini giusti in questo mondo, che dobbiamo accettare la realtà com'è, e che la morte domina onnipotente, senza eccezione, l'intera storia dell'uomo. Questa conclusione lascia scoperta questa protesta della coscienza. Quante volte abbiamo provato, nella nostra esperienza privata, questo conflitto (che a volte diventa angoscia e disperazione) tra l'andamento dei fatti e l'attesa legittima della coscienza! È una contraddizione che ha suggerito, a grandi pensatori, il postulato dell'immortalità. Comunque vadano le cose dal punto di vista della ragione filosofica, dal punto di vista morale dobbiamo dare molta importanza a questa capacità di assuefarci alla logica dei fatti, di prenderne atto. È, senza dubbio, segno di saggezza accogliere in anticipo la terribile condanna della morte, ma nel contempo dobbiamo lasciare scoperta la voce della coscienza che protesta. E così, se guardiamo quanto avviene nella società e nella realtà politica deve nascere in noi la stessa protesta: non è possibile! Infatti, se facciamo sul serio il discorso di fede e ci riferiamo al Dio che ha resuscitato Gesù Cristo, in realtà noi scarichiamo sul Dio della fede la responsabilità di queste contraddizioni. Credere in Dio non significa avere una onnipotenza a disposizione per i nostri bisogni, significa soprattutto responsabilizzarlo. Se ci sei, o Dio, sei responsabile! Non dico nelle contraddizioni che ci riguardano nel nostro egoismo biologico e nel nostro egoismo morale, ma nel conflitto tra ciò che sommamente vale in noi e ciò che avviene di fatto, è la nostra dignità. Dio non può non essere responsabile. Se c'è, è qui che deve mostrare la sua presenza all'uomo. Ecco perché la resurrezione di Gesù, per noi, è il punto in cui si è manifestata la responsabilità di Dio. Dio si fa responsabile della storia dell'uomo. È la nostra certezza. Una responsabilità che proietta le proprie scadenze, i propri adempimenti nel futuro ma che si è attuata, come una primizia, in Gesù di Nazareth. Resuscitato da morte Egli è entrato nella gloria. La gloria non è che l'armonia ristabilita, la contraddizione saldata, il «delinquente» diventato signore; la vittima diventata gloriosa; il povero diventato ricco. Il capovo1gimento si adempie in Gesù. Noi non postuliamo, filosoficamente, questo: noi lo ricordiamo con gioia ed esultanza. Dio ha preso su di Sé la responsabilità della storia. Allora ci appare colorata di un significato più profondo, la mestizia di questi discepoli che, ucciso Gesù dai potenti, tirano le conseguenze. Essi avevano sperato! Questo verbo «sperare », coniugato al passato, è moralmente suggestivo. Mi viene fatto di pensare a quante cose abbiamo anche noi giustamente sperato: «avevamo sperato »! Sembra proprio che la storia vada avanti facendosi beffa di chi spera. Gli idealisti, le anime di una sola dimensione, non sono mai deluse perché non si sono mai aspettate niente dalla storia corrente. Ma chi osa sperare è chiamato all'angoscia. La sua vita non sarà che una contraddizione. Questo ripiegarci sulle speranze che sono cadute lungo la strada è anche un alto momento di vita morale. Non ci dobbiamo illudere, ma non dobbiamo – nonostante questo – smettere di sperare.
Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 1