15 Dicembre 2019 – III DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
15 Dicembre 2019 – III DOMENICA DI AVVENTO – Anno A
La pedagogia dei mass media suscita in noi ogni giorno delle speranze che però non hanno nessuna sostanza di futuro. I mezzi pubblici non hanno labbra per dire quanto può essere detto dal povero che incontriamo, dalla persona che non ha peso in questo mondo.
PRIMA LETTURA: Is 35,1-6a. 8a. 10- SALMO: 145- SECONDA LETTURA: Gc 5, 7-10- VANGELO: Mt 11, 2-11
È vero, non c’è un cominciamento senza una fine ed è per questo che noi dobbiamo avere profondo il sentimento delle cose che finiscono. La capacità di percepire la novità è direttamente proporzionata alla incapacità di sopportare il mondo presente. Noi dobbiamo sentire l’inconsistenza delle cose, ma non per denigrarle o per disprezzarle, ma per ridurle a quel che sono. Di fronte allo sguardo educato all’essenzialità del deserto, crollano i palazzi anche sacri, non ne resta pietra su pietra. Questa saggezza custodiamola nell’anima, lasciamo che operi dentro di noi perché essa ci riporta alla misura delle cose e dà ai nostromi sensi la proporzione dell’effimero dentro cui siamo immersi. Ma Gesù non è venuto al banchetto degli uomini per dire, come un Buddha o un Giovanni Battista: bevete acqua, mangiate pane e niente altro! È venuto a portare il vino. Non è un maestro di moderazione che fa numero con gli altri figli della saggezza profetica della fine, del non-essere delle cose, è invece l’aurora che balza nella notte, è il fiore nella steppa, è il grido di gioia del muto, è il sussulto di stupore del cieco che vede. E l’inizio. La sapienza evangelica è la sapienza dell’inizio, di ciò che arriva, di ciò che viene, e non come pura continuità del presente, ma come irruzione di una novità che non può essere misurata secondo i criteri che abbiamo ereditato ma va colta con la potenza creativa della coscienza. La coscienza, questa presenza dell’uomo a sé, è anche il golfo, l’angolo segreto in cui arrivano le correnti del mistero della novità e se noi non custodiamo dentro di noi questa intimità a noi stessi, questa germinazione inarrestabile di speranze, come potremo capire che il vento che viene è un vento di primavera? Come potremo capire che gli odori che arrivano sono di un’altra stagione? Per questo dobbiamo custodire in noi stessi questa dimensione delicata, che non si insegna, ma si propaga come una nobile malattia dello spirito – uso i termini del palazzo perché nel palazzo chiunque non si adatta alle misure è un po’ malato – e che è invece l’infanzia. Il più piccolo del Regno di Dio è il povero, che non ha nemmeno dignità morale, che non è un Giovanni Battista, non rispetta nemmeno tutti i comandamenti che però attende, cosciente di sé e della sua miseria. Egli è più grande di Giovanni Battista. Le misure paradossali non si riferiscono allo stesso parametro. Quel che conta, senza disprezzare il resto, è la capacità di amare, di accogliere la novità. Questo è vero e in senso definitivo e ultimo – cioè in rapporto a quella realtà che noi, con parola ereditata, chiamiamo «Regno di Dio» – e nel senso immediato: in un amico che si incontra, in una gioia conviviale, in un amore che sboccia, in un bambino che nasce. Dinanzi a tutte le cose, grandi e piccole, dobbiamo avere la congenialità al nuovo. Non al nuovo purchessia, perché di questo il presente è fecondissimo. Il presente uguale a se stesso produce novità straordinarie che però hanno un destino circolare per cui ritornano sempre al solito punto. La pedagogia dei mass media suscita in noi ogni giorno delle speranze che però non hanno nessuna sostanza di futuro. I mezzi pubblici non hanno labbra per dire quanto può essere detto dal povero che incontriamo, dalla persona che non ha peso in questo mondo. La simpatia di Gesù per i poveri è la stessa cosa che la sua qualità di annunciatore della novità. Tutte queste cose – non è la prima volta che lo dico – se le calo nel presente collettivo in cui viviamo, hanno un grande senso. Tutte le volte che si ragiona di qualsiasi problema tutto sta sapere da quale angolo si guarda la realtà che si giudica. Se la guardate da una finestra del palazzo le cose vanno in un modo, se le guardate dalla baracca della città dov’è il palazzo hanno un altro senso. Tra la baracca della periferia di Roma e il Quirinale c’è una distanza di anni luce. E dov’è la verità? A priori si può dire che non è quella di palazzo: quella è una verità funzionale. La verità passeggia nelle periferie del mondo, viene avanti con la speranza di coloro che hanno un solo tesoro che si chiama speranza. È in quel luogo che ferve la novità, che si guarda alle cose con un occhio diverso per cui, mentre noi andiamo fieri delle nostre città sature di storia e di smog, qualche selvaggio gode la natura molto più di noi che la godiamo in cartolina, nei musei. Le aurore e i tramonti sono belli nei quadri! Abbiamo tutto, ci manca la speranza. La nostra vecchiaia, quella dei secoli, ci fa stanchi, la nostra civiltà che è una infinita ripetizione del presente ci fa stanchi. Dobbiamo riconoscere la sapienza del Vangelo nella capacità di darci gioia nel vivere, di darci una ragione di vita che ci faccia vivere sempre in attesa, con il cuore un po’ più in là dei nostri passi. Il peccato ha un solo nome ed è l’immobilità nel passato e nel presente, che è la superficie immediata del passato. La virtù è il liberarci da questo, è l’essere disponibili a ciò che sta venendo.
Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 1 – anno A