28 Aprile 2019 – II DOMENICA DI PASQUA – Anno C

28 Aprile 2019 – II DOMENICA DI PASQUA – Anno C

28 Aprile 2019 – II DOMENICA DI PASQUA – Anno C

 

Noi non siamo dei filosofi che dimostrano ai non credenti che, ragionando, si arriva a capire che dopo la morte c’è qualcosa, noi affermiamo – cosa incredibile! – che la morte è stata vinta, che Dio in Cristo ci ha manifestato un segreto e che questo segreto è la vita nella sua pienezza. Questo è l’annuncio pasquale, il paradosso pasquale.

 

PRIMA LETTURA-At 5,12-16- SALMO- 117- SECONDA LETTURA-Ap 1,9-11°- VANGELO- Gv 20,19-31

 

…Il nuovo regno è innanzitutto la vittoria sulla morte, e l’emergere dagli inferi (Gesù come ognuno di noi è sceso agli inferi: gli inferi sono le tenebre della morte) del Cristo risorto. Il regno di Dio è il cominciamento di una nuova esistenza liberata dalla cesura della morte, è la vita eterna non come prolungamento dell’esistenza spirituale nel tempo dell’aldilà, ma come una nuova creazione, come pienezza di esistenza che ha un suo radicamento nella materia stessa del cosmo. È la creazione presente liberata dai brividi del disfacimento, restituita all’aurora primordiale, al fiat creativo che è stato sempre smentito dalla morte. Che un Dio che crea le creature accetti poi impassibile il loro disfacimento è uno scandalo che giustifica anche l’ateismo. Questo Dio che ama la vita e ce la dà perché la sorseggiamo e poi subito moriamo di sete, questo Dio non è così credibile, come a qualcuno sembra. C’è a contestarne la declamata paternità l’insieme di tutti i cimiteri del mondo. Questo non-essere che minaccia coloro che hanno appena assaporato la grandezza divina del vivere è un argomento più forte di tutti gli argomenti positivi su Dio. Noi non siamo dei filosofi che dimostrano ai non credenti che, ragionando, si arriva a capire che dopo la morte c’è qualcosa, noi affermiamo – cosa incredibile! – che la morte è stata vinta, che Dio in Cristo ci ha manifestato un segreto e che questo segreto è la vita nella sua pienezza. Questo è l’annuncio pasquale, il paradosso pasquale. Il regno di Dio, oggetto di fede e non punto di arrivo di argomentazioni umane, ha un significato che è tutto nella parola «pace». La pace di cui si tratta non è quella di cui si discute negli incontri di Ginevra o alle Nazioni Unite, è innanzitutto una pace che attraversa le fratture profonde del nostro essere. Noi siamo in guerra con noi stessi. C’è in noi una parte di noi che ci fa paura, contro cui ci difendiamo in ogni modo ed è la parte che muore, è la morte che avanza, è il non-essere che ci avvolge e ci stringe e ci scandisce lentamente i minuti. Questo è il nemico che abbiamo in noi. E non c’è pace in noi se non abbiamo vinto questa inimicizia che dentro le pulsioni della vita è costituita dall’aculeo della morte. La pace è l’accoglimento della promessa di vita, è l’impegno ad eliminare nel mondo tutte le ombre di morte e tutto ciò che genera morte e quindi anche ogni guerra, ogni arma, ogni inimicizia. Il regno di Dio è questo ed implica in sé anche tutte le speranze che noi collochiamo negli orizzonti socio-politici della pace. Il regno di Dio è senza bombe, è senza armi, è senza esercito, è senza prigioni, è senza polizia… Voi dite: allora dov’è? In nessun posto! Ma lo portiamo in noi, lo abbiamo nelle nostre mani. Credere nella resurrezione vuol dire credere in una diversità di esistenza che non è da aspettare con le mani incrociate, è una consegna di vita. Crede nel regno di Dio chi si impegna perché si affermi un diverso ordine di vita. Quando dico «si impegna» alludo ad un impegno che viene dalle viscere dell’essere perché riguarda, al di là delle distinzioni capziose che sono in uso nelle «filosofie del centro», l’anima e il corpo, i bisogni spirituali e i bisogni materiali (tutte distinzioni che in periferia non hanno senso, ne hanno nel centro), tutto lo spessore dell’essere individuale e collettivo. Credere nel regno di Dio vuol dire assumere come senso dell’esistenza un diverso ordine di vita, quello della pace. Questo è il cominciamento…

 

Ernesto Balducci: da “Gli ultimi tempi” vol. 3

 

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