3 Aprile 2016– SECONDA DOMENICA DI PASQUA – Anno C
3 Aprile 2016– SECONDA DOMENICA DI PASQUA – Anno C
O siamo una comunità che libera, che rompe tutte le barriere (anche quelle della morte, ma non soltanto quelle) che impediscono all’uomo di essere uomo, oppure noi mentiamo alla nostra fede.
PRIMA LETTURA: At 5, 12-16- SALMO: 117- SECONDA LETTURA: Ap 1, 9-11.12-13.17.19- VANGELO: Gv 20, 19-31
…Quando superiamo la barriera della nostra morte, per noi il mondo finisce, ogni discorso è chiuso, ogni filosofia della storia si capovolge nel silenzio muto del non-essere. Ma la fede, scavalcando questa parete dove tutto finisce, si innesta in Colui che ha attraversato lo stesso Mar Rosso della morte ed è approdato alla Terra promessa della storia. La mia speranza getta così un’ancora nel futuro assoluto; tutto il resto rimane, appunto, nell’ombra del Venerdì santo. Io non vi so far discorsi su ciò che avviene dopo la morte, su ciò che è morire. So che questi sono gli inferi in cui è disceso il Figlio dell’uomo e da cui egli è Risorto, capovolgendo il senso che l’esistenza ha nella nostra prospettiva di condannati a morire: Egli è sceso nel fondo. Per questo la fede ha qualcosa di paradossale: se così condotta, cioè misurata sull’evento esemplare di Gesù Cristo, essa non è la conclusione di una filosofia sul mondo. Come ho detto, tutte le filosofie hanno un punto di arresto ed è la parete in sorpassabile del morire e del finire, Ogni tentativo metafisico di costruire una spiegazione ulteriore , sovraterrena dell’universo, è un tentativo vano, è poco più che un sintomo della indomabile dell’uomo, dell’utopia insoffocabile, ma non ha in sé credibilità sufficiente per darci consolazione. Ma se io credo in questo risorto, allora, la mia consolazione è fondata oggettivamente: ecco, io so che il Cristo è il Vivente e in Lui io vivo una vita che non potrà essere annientata. Questa certezza diventa motivo di impegno storico. È questo che volevo dire, rifacendomi a ciò che ho detto agli inizi: la comunità che nasce dalla resurrezione, con fedeltà sia all’ombra della Croce che alla luce della Pasqua, è una comunità che attrae attorno a sé tutti coloro che sono mossi dalla speranza. Permettete che prescinda dal dato di fatto che non avviene così, purtroppo (è lo scandalo di cui vi parlavo prima), ma, vista nel suo nucleo essenziale – e in qualche modo perenne – , la comunità dei credenti in Cristo è una comunità che diventa una polarità della speranza umana: ogni speranza umana – soprattutto quelle speranze che, per lo sviluppo del loro intimo postulato, urtano contro i limiti del possibile e fanno appello all’impossibile – deve essere accolta dalla comunità dei credenti, soccorsa, tradotta in progetto operativo. In un mondo come quello dei primi cristiani, circoscritto da leggi intangibili, quasi costruito secondo la lega terribile del destino – il povero doveva restar povero, per il malato non c’erano rimedi, per lo schiavo c’era lo statuto sociale che lo legava alla sua condizione – la speranza pasquale urtava contro infrangibili barriere. Non diventava progetto. Essa era soltanto un soccorso immediato e uno spiraglio aperto sulla ulteriorità della storia, sulla vita eterna che è dopo la morte. Ma noi non dobbiamo vivere la fede pasquale alla stessa maniera storica dei primi tempi: a noi tocca la responsabilità conforme alle disponibilità nuove che sono nelle nostre mani. Noi non abbiamo il miracolo a disposizione per guarire i malati, per guarire gli ossessi dal diavolo, noi abbiamo strumenti che ci danno certe possibilità. Sappiamo che la miseria non è un dato inevitabile, è un prodotto che rimanda alle responsabilità umane. Tutto questo implica un impegno conforme al nuovo quadro di lettura della storia, che abbia però lo stesso senso: quello delle liberazione degli oppressi. O siamo una comunità che libera, che rompe tutte le barriere (anche quelle della morte, ma non soltanto quelle) che impediscono all’uomo di essere uomo, oppure noi mentiamo alla nostra fede. Noi non possiamo guardare il Vivente che attraverso gli inferi della disperazione, consolandoci con Lui, perché dobbiamo entrare anche noi negli inferi dove l’uomo vive schiavo, vive disperato, agonizzante. Senza un impegno che ci conduca nel groviglio della storia, nella inesplicabile tragedia della storia, la fede mentisce a se stessa e diventa infedeltà.
Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol 3 – anno C (1985-86)