25 DICEMBRE 2015 – NATALE DEL SIGNORE
25 DICEMBRE 2015 – NATALE DEL SIGNORE
Perché la parola «pace» quando viene detta al livello della capanna di Betlemme, della nostra casa, della famiglia, delle amicizie e dell’amore è una parola vera, viene dalle viscere dell’umanità? Che cosa desideriamo d’altro se non la pace? Con tutto ciò che c’è di luminoso dentro questa parola? È mille cose, la pace. …
Il senso del Natale è che Dio entra nella storia non nel punto alto ma nel punto basso, che Egli non si rivela negli spazi dove il potere, attraverso le sue manifestazioni, compie gesti e li racconta per le generazioni future; lì Dio non c’è, lì non c’è posto per l’uomo povero, per la donna, per il bambino, cioè per quegli esseri che vivono allo sbaraglio, senza protezione alcuna. La memoria cristiana, fin dalla prima generazione, ha circondato questa nascita di immagini fastose: gli angeli cantano, i re magi vengono dall’oriente, …ed è giusto, perché in fondo si tratta di costruire, con un tessuto di simboli, una antistoria, una storia opposta a quella che a Roma e a Gerusalemme veniva condotta avanti dal potere. Erode, il Sinedrio, gli Scribi sono personaggi che noi ritroviamo nei nostri testi di storia scolastica: son sempre quelli! Secondo la famosa tripartizione della storia indo-europea ci sono sempre i guerrieri, i sacerdoti e i mercanti: le tre figure emblematiche della storia. In questa nascita invece noi ci ritroviamo al di fuori. Il messaggio del Natale, è quello che vi dicevo: la verità dell’uomo, il vero regno dell’uomo e il vero regno di Dio si costruiscono lungo una trama che non è quella su cui noi siamo portati a posar la mente quando vogliamo raccontarci il nostro passato e quando vogliamo rappresentarci il nostro presente. Nel nostro presente noi viviamo una vita con punti di riferimento ufficiali che sono quelli del potere multiforme che poi scende fino a noi, ne siamo anche noi partecipi, in qualche modo. Non è il caso – e del resto il Vangelo non lo fa – di tracciare una linea netta per separare gli uomini del mondo che fanno la storia, e gli uomini dell’antimondo che invece non la fanno perché vivono nella loro semplicità e immediatezza. Non è giusto, perché, ad esempio, i re magi, che sono gli uomini del potere, vengono anche loro alla grotta, quasi per dire che nessuno è escluso da questo riconoscimento, che non c’è una contrapposizione di classe, rigida, che oppone gli uni agli altri, c’è piuttosto uno spaccato della condizione umana in cui ci ritroviamo perché anche noi per certi versi – e forse sono i versi più essenziali della nostra vita – siamo fuori dell’area pubblica in cui si conta per quel che si vale, per quel che si sa, sia a livello della ricchezza sia al livello della cultura. Ma abbiamo momenti che chiamiamo privati, semplicemente per comodità di vocabolario, in cui viviamo anche noi la nostra vicenda: la nascita, la crescita, la vecchiaia, la morte, le confidenze segrete, le trepidazioni, le soddisfazioni nel cerchio familiare, lo scambio delle amicizie… Tutta questa trama che occupa la nostra esistenza rimane come esterna alla grande storia dove invece domina un’altra legge, che è quella della violenza. Perché la parola «pace» quando viene detta al livello della capanna di Betlemme, della nostra casa, della famiglia, delle amicizie e dell’amore è una parola vera, viene dalle viscere dell’umanità? Che cosa desideriamo d’altro se non la pace? Con tutto ciò che c’è di luminoso dentro questa parola? È mille cose, la pace. È anche il necessario per vivere, la tavola apparecchiata, è anche il sorriso della madre al bambino che cresce in sapienza e grazia… È tutto questo la pace. Questo è il tesoro che noi custodiamo nel cuore. Però appena si entra nella piazza pubblica del potere – del guerriero, del sacerdote e del mercante – questa pace non c’è più perché c’è la competizione, c’è la guerra, c’è la violenza. La storia della salvezza, così come ci appare dal Vangelo, è una contraddizione costante tra questo spazio pubblico del pretorio dove si organizza la società, dove si costruisce la città, dove si provvede, anche con ottime intenzioni, al futuro della città, e l’altra storia umile, semplice, essenziale in cui l’aspirazione fondamentale è la pace. […] Allora credere in Dio non è un problema da filosofi, da inquieti ricercatori dell’assoluto – figure romantiche e ambigue – ma è docilità al magistero della vita, è ascolto di quella parola vissuta che è l’amore. L’amore fecondo è la trepidazione materna, è la delicatezza del bambino, è lo smarrimento del povero. Lì c’è Dio, che non è dunque un concetto, è un flusso vitale che precede la nostra vita e la illumina. Se non capiamo la vita non capiamo Dio e se non la capiamo nell’alfabeto semplice è inutile che compulsiamo i grandi testi della filosofia.
Ernesto Balducci – da “Gli ultimi tempi” vol, 3 – Anno C (1985/86)