18 Ottobre 2015 – XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno B
18 Ottobre 2015 – XXIX DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno B
No: il dolore resta nella sua massiccia inesplicabilità. Però il Vangelo ci mostra che vi si può entrar dentro con un'altra forza, con un altro principio capace di attraversarlo e di riscattarlo.
PRIMA LETTURA: Is 53,10-11- SALMO: 32- SECONDA LETTURA: Eb4,14-16- VANGE-LO: Mc lO, 35-45
Vorrei premettere due osservazioni per aprirci la strada ad una lettura il più possibile vivificante e illuminante della Parola di Dio La prima riguarda il venir meno, sia al livello più ufficiale della teologia, sia a quello della coscienza comune, di un modo di leggere la sofferenza del Gesù sulla croce che la faceva rientrare m una specie di grande ordine logico. In poche parole – e voi sentirete in queste poche parole qualche riflesso che richiama il catechismo che avete imparato – siccome l'uomo ha compiuto verso Dio un peccato di infinita gravita (l'offesa a Dio è oggettivamente infinita) era necessaria una riparazione che avesse la stessa misura: fosse infinita. Ma non essendo l'uomo capace di atti infiniti era necessario che ad espirare fosse, sì, un uomo, perché l'uomo era colpevole, ma un uomo che fosse anche Dio, perché solo un atto di Dio è infinito. Così, nel Medio Evo si costruì la logica entro la quale la sofferenza della croce appariva ovvia come il pagamento di un debito: tanta la colpa, tanta la riparazione. Solo che non si avvertiva adeguatamente – possiamo dirlo, a distanza – che con questa spiegazione logica, si colpivano, nel cuore, due misteri fondamentali. Innanzitutto quello del Dio-Amore. Come può essere Amore un Dio che ha bisogno che si paghi un debito, e in quella maniera? Come possiamo chiamare Amore un Dio che ha bisogno delle nostre sofferenze per sentirsi appagate? Se Dio è amore non ha bisogno delle nostre sofferenze, come un padre, una madre, non han bisogno per sentirsi appagati di eventuali offese, che i figli soffrano. Si colpiva il mistero dell'amore. E poi si colpiva, un altro mistero: quello della persona umana. Perché Dio, in questa teologia ideologica, amava più l'ordine che l'uomo. Era l'ordine che doveva essere ristabilito, e se, per ristabilire l'ordine, un uomo doveva essere sacrificato, si sacrificasse l'uomo. Queste ideologie non sono mai innocenti, perché fanno da copertura suprema ad altre posizioni più immediate e più terrene. E noi conosciamo bene una ideologia che abbiamo alle spalle – in cui l'ordine conta più che l'uomo. Per ristabilire un ordine ci vogliono i roghi e la ghigliottina. Ci vogliono la frusta, le punizioni. Questo concetto dell'ordine come supremo valore, a cui tutto va sacrificato, aveva, nella teologia cristiana, un sigillo in più. Ma noi ora ci liberiamo – ed è la nostra fatica storica – da questa eredita, per altri aspetti anche apprezzabili. La nostra esperienza umana, anche se per tanti versi così negativa, apre dentro di noi un bisogno di liberazione da ogni schiavitù anche, anzi soprattutto, da questa schiavitù della coscienza. E ritorniamo all'evento cristiano, senza passare attraverso la griglia delle spiegazioni teologiche diffuse nella catechesi per secoli interi. Ci vogliamo interrogare con liberta sul senso del dolore. Il Vangelo non è una spiegazione del dolore, non è, come per esempio una certa religione di salvezza dell'Oriente, un'analisi mediante la quale ci liberiamo dal dolore. No. il dolore resta nella sua massiccia inesplicabilità. Però il Vangelo ci mostra che vi si può entrar dentro con un'altra forza, con un altro principio capace di attraversarlo e di riscattarlo. Rileggiamo l'episodio vivacissimo, raccontatoci da Marco, nel quale gli apostoli chiedono un «potere». Essi han seguito Gesù, ma sotto sotto, si capisce perché: per raggiungere un «potere». E Gesù oppone a questa richiesta un'altra logica: quella del servizio, diciamo quella dell'amore, cioè dell'esistenza il cui senso non è nell'acquistare potere, ma è nell'esaurirsi nel dono di sé per la gioia degli altri, per la liberazione degli altri. Abbiamo qui, quasi nella chiarezza di un tessuto al microscopio, le due forze che governano l'intera economia della storia umana e della nostra vita personale.[…] Quando diciamo che Dio è amore, non conosciamo bene quel che diciamo. Per capire cos'è l'Amore dovremmo averlo vissuto. La nostra è un'esperienza labile, saltuaria, fievole. Per capire chi è Dio dovremmo essere amore, perché altrimenti non lo capiremo. E infatti non lo capiamo. E abbiamo bisogno di costruirci un Dio, che tutto sommato, proietti nell'infinito le nostre aspirazioni: un Dio giusto, un Dio che ha bisogno di espiazione. Ne abbiamo bisogno, noi, di un Dio cosi, perché un Dio così giustifica la nostra aggressività. il Dio invece, che fa la festa per il figlio prodigo è un Dio che ha rinunciato a farsi pagare. Ma non per nulla ha accanto a sé il prototipo dei teologi, il figlio buono che dice: cosi non vanno le cose: io ho lavorato, io sono onesto e non ho mai avuto una festa simile, Hai un figlio scioperato e gli fai festa. E un Dio un po' «impazzito». Appunto, fuori della nostra norma. I teologi hanno pensato a rimetterlo a pesto, magari facendo del padre del Fìgliol prodigo il prete del sacramento della confessione. Ma in realtà questo è un Dio che manda all'aria le nostre spiegazioni, perché la Sua verità è un po' più in là della nostra ragione. Ecco perché l'ateismo è un prodotto cristiano: è la conduzione al limite del nostro modo di pensare Dio. Se fossimo coerenti, dovremmo essere atei. Ma siamo un po' incoerenti e atei non siamo. La vera alternativa all'ateismo consiste nel cambiare totalmente il modo di pensare Dio; sapere che la fede è un'esperienza totale, è un'esperienza in cui si crede all'amore e si rifiuta la logica del potere, in cui pure siamo inseriti. È questo il nostro dramma. Chi esercita il potere senza il desiderio interno che finisca è un peccatore. Chi lo esercita pregando Dio che finisca, e, forse, perdonato . L'importanza è che noi ci incamminiamo nell'altra esperienza, al cui termine c'è la Croce. Come dire il fallimento. Chi crede all'amore sa che le vittorie dell'amore sono spesso dei fallimenti. il fallimento è, nella logica del potere, una categoria negativa; ma nella logica dell'amore, può diventare una categoria positiva. Quando falliamo, di tutte le logiche ne rimane una sola: quella dell'Amore.
Ernesto Balducci – "Il mandorlo e il fuoco" vol 2 anno B(1975/76)