11 Ottobre 2015 – 28^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B
11 Ottobre 2015 – 28^ DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – Anno B
Noi non dobbiamo dirci solo le parole della vanità, dobbiamo riconoscere che, se un valore c'è, è l'amore per tutti gli uomini, è il superare i confini che rischiano di chiuderci, anche quando sono santi e benedetti, alla partecipazione alle sofferenze e alle speranze di tutta l'umanità.
PRIMA LETTURA: Sap 7, 7-11- SALMO: 89- SECONDA LETTURA Eb 4, 12-13- VANGELO: Mc 10, 17-30
Non c'è dubbio che il momento critico della nostra vita morale – lo vediamo ogni giorno – sia là dove si corrodono le istituzioni e le rappresentazioni culturali della nostra vita perdono di senso. Quando esse vivono con interna coesione, si fanno credibili per la loro stessa efficienza, per la ricchezza di significati che riversano sull'uomo collettivo e nella coscienza dell'individuo. Allora noi viviamo in una specie di salute storica. Ci sono, però, momenti in cui le istituzioni scricchiolano, la famiglia non regge più, il bisogno affettivo travalica le frontiere familiari e diventa labile, promiscuo, incapace di accogliere come suo compito la stabilità, la permanenza; in cui la cultura perde le sue tavole di bronzo e diventa vaneggiamento, critica radicale al passato senza proposte per il futuro; in cui le ricchezze grondano di iniquità, e noi siamo costretti a riconoscere che esse non sono altro che l'indebito accumulo di refurtive immense. È lo smarrimento storico, detto in pochissime parole, di cui siamo spettatore e di cui siamo anche vittime. In una situazione come questa, il bisogno della sapienza diventa come il bisogno di un punto di vista che dia per scontata la vanità di tutto questo; una specie, se posso dir così, di azzeramento di quei valori che invece erano il nostro sostegno. Un modo di guardarli per circoscriverne il senso relativo insomma, per comprendere che il significato nostro non sta nell'avere – si tratti della ricchezza economica, si tratti della cultura, ivi compresa la legge morale in quanto prodotto di una cultura, si tratti del patrimonio degli affetti che ci circondano – sta oltre. Di qui nasce una sapienza che può sembrare, nelle sue espressioni più significative – da Giobbe al poeta della Ginestra – una forma di nichilismo: il sentimento che tutto è vanità, che il ritmo assordante che ci guida, come se fossimo all'interno di una carovana che marcia cantando, è veramente una follia collettiva; l'esperienza di una solitudine metafisica in cui rimisurare il non-senso delle cose che hanno senso, capire che noi ci reggiamo sul nulla, che tutta la nostra storia è, secondo la famosa espressione, «una favola narrata da un idiota». L'occhio inesorabile del pessimismo biblico o del pessimismo del nostro tempo, è un tributo alla sapienza. Niente di più stolto che l'enfiagione dello spirito, la vanità della mente, la presunzione con cui noi guardiamo a destra e a manca come dei dominatori, mentre siamo solo attori su di un proscenio che ci scricchiola sotto i piedi. Questo processo annichilatorio delle cose è una prima parola di sapienza che non per nulla, quando abbiamo il cuore disposto, ci commuove. Ci avviene di percepire questa polla umile della sapienza, che mai si è seccata, soprattutto sulle labbra dei semplici, di quella gente che non è culturalmente integrata ma porta in sé una memoria antica come il mondo in cui queste sillabe vengono scandite a nostro ammaestramento. Mentre gli uomini riusciti, quelli del successo, si pavoneggiano sullo schermo della storia, questa gente vive nelle ripetizione perenne del ritmo della vita, nascita-crescita-morte, con una sapienza che non possiamo non accogliere. In fondo, quando Gesù diceva: «queste cose, o Padre, le hai nascoste agli intelligenti e le hai rivelate ai semplici», questo diceva. La luce della sapienza che viene verso di noi non è visibile se non partiamo da questa sapienza imparata nella carne viva della nostra esperienza umana. Allora che cosa è ricchezza, cosa è l'amore, cosa è anche la cultura che apprendiamo con tanta fatica, se non vanità? La prima parola e l'ultima è «vanità». Questa sapienza negativa, però, ci apre a delle aspirazioni universali che sono rette da un impeto morale, da un bisogno di universale solidarietà che è positivo. Noi non dobbiamo dirci solo le parole della vanità, dobbiamo riconoscere che, se un valore c'è, è l'amore per tutti gli uomini, è il superare i confini che rischiano di chiuderci, anche quando sono santi e benedetti, alla partecipazione alle sofferenze e alle speranze di tutta l'umanità. Questa è la sapienza. È il considerare come. valore non l'avere, che ci da solidità, ma semplicemente l'esistere. Gli occhi di un bambino povero che si sprono sono più importanti del mondo intero, perché essi sono la vita che si affaccia. Se noi cerchiamo qualcosa che porti in sé lo splendore dell'assoluto per cui meriti sacrificarsi, dove lo cerchiamo? Nelle stelle del cielo o negli occhi delle creature, di quelle che gemono, gridano la loro fame, chiedono affetto? Questa ampiezza sapienziale varca le nostre frontiere, ci ricorda che la nostra stessa felicità, quel palmo che ne abbiamo, in fondo è abusiva, quasi ce ne vergogniamo.
Ernesto Balducci – Il Vangelo della pace" vol. 2 anno B (1981/82)