13 Settembre 2015 – XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno B
13 Settembre 2015 – XXIV DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno B
PRIMA LETTURA: Is 50, 5-9a- SALMO: 144- SECONDA LETTURA: Gc 2, 14-18 – VANGELO: Mc 8,27-35
Vorrei cominciare, in questa riflessione, dai limpidi ammonimenti di Giacomo circa il rapporto tra la fede e le opere, che egli colloca soprattutto in una ottica di amore verso i poveri. Chi non ha attenzione ai poveri, chi ha preferenza per i ricchi, si trova in diretta contraddizione con la fede. La storia è piena degli echi delle controversie, anche armate, sul tema del rapporto tra fede ed opere. Oggi, distaccati da quell'epoca, vediamo bene come il vizio segreto di quelle dispute fosse nel fatto che esse avvenivano fra «clerici», fra teologi, fra dotti, mentre il popolo viveva nell'assoluta ignoranza della questione. E invece il Vangelo è proprio per il popolo. Si scontava una frattura epocale, che ancora è tutt'altro che finita, secondo la quale il messaggio di Gesù destinato ai poveri è andato in mano ai colti, che ne hanno fatto motivo di competizione reciproca e di guerre. Il nesso Vangelo-poveri ritorna oggi in forme autentiche, perché sono i poveri del mondo espropriato dalla nostra economia di rapina che rileggono il Vangelo e tentano un nuovo rapporto tra la fede e le opere. E questo rapporto turba i potenti, i «clerici» e gli uomini politici, perché esso destabilizza il mondo iniquo ed apre le vie della speranza ai diseredati e agli oppressi. A mio giudizio è questa la vera via per ricostruire un rapporto fra fede e opere non astratto, culturale, filosofico e teologico, ma pratico e reale secondo la linea del Vangelo. Nel tentativo di ricostruire un quadro dell'esistenza di fede che sia conforme alle acquisizioni dovute non dico alla crescita storica ma alle contraddizioni che ci hanno in qualche modo maturati, mi domando: come è che le opere hanno valore? quando è che l'opera può essere considerata degna del giudizio positivo di Dio? La prima istanza è quella della coerenza con la propria coscienza. C'è una prima luce di Dio, che può essere denominata con termini totalmente laici: la luce della coscienza. Le opere che non riflettono questa luce non hanno nessuna dignità morale e non meritano nessun giudizio positivo, nemmeno da parte di Dio. Ma quando diciamo coscienza dobbiamo stare attenti a non dimenticarci che questo principio della nostra libertà, della nostra dignità, della nostra trascendenza sui determinismi che ci attraversano e che si intrecciano in noi, è anche un prodotto. Essa ha bisogno di riferimenti su cui misurarsi. La sua esaltazione, se non è circoscritta da un sospetto critico, è pericolosa. A questo punto inizia il discorso di fede. In che senso io posso pronunciare un giudizio che sia secondo Dio e non secondo gli uomini? Nel linguaggio sbrigativo ma sostanzioso del Vangelo, giudicare secondo gli uomini vuoi dire giudicare secondo la cultura corrente – noi diciamo dominante – quella che stampa i giornali, ha in mano la televisione, riempie i salotti e le sale di conferenze e persino le chiese dove si predica. Giudicare secondo gli uomini vuoi dire accettare le categorie che si considerano fondamentali per la razionalità del vivere, dell'agire e del decidere. Pietro, in fondo, era un uomo che agiva secondo coscienza. Di fronte a un maestro che prospetta niente meno che il suo fallimento, dice: «sta' zitto! Non dirlo, altrimenti chi ci viene dietro?». La categoria del successo, applicata alle finalità buone, è sempre degna di rispetto! Il vizio mentale di Pietro era quello ereditato dal messianismo temporale. Poco prima, alla domanda di Gesù, aveva detto: «Tu sei il Cristo», cioè il Messia, e quindi voleva dire: «Tu sei colui che porta a riscatto il nostro popolo». La speranza dei secoli confluiva nella passione di Pietro per il Maestro. Non era un individuo, era un popolo che parlava con lui. invece il Maestro prospetta il fallimento e una vittoria, ma al di fuori dei quadri previsti. C'è una frattura profonda. […] Ci troviamo in un tempo messianico. Chiamiamo messianico il tempo in cui le speranze, che spesso vanno, come torrenti o fiumi, in letti tranquilli, a volte si trovano dinanzi a grandi barriere. Siamo dinanzi a queste grandi barriere ed ecco perché siamo portati a ripiegarci per interrogarci. Che cosa vuoi dire aver fede, una volta che questa parola sia tolta alla cattura religiosa e spiritualistica? In quest'ottica, la fede vuoi dire sperare in Dio, nel paradiso, nell'aldilà. Così svuotata la fede diventa crisalide, manipolabile a tutti gli usi, anche a quello delle, guerre, come la storia ci dimostra. La fede di cui parlo, e che vuole opere conseguenti, è la fede della non-violenza. È la non-violenza che apre la via alla realizzazione del mondo secondo il cuore di Dio e il cuore dell'uomo, che sono un solo cuore. Un mondo di pace, senza violenze, senza discriminazioni, senza sperequazioni. Questa aspirazione è il segno messianico iscritto nelle fibre carnali dell'uomo…
Ernesto Balduci- da "Il Vangelo della pace" – volume 2 anno B