6 Settembre 2015 – XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno B
6 Settembre 2015 – XXIII DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno B
Noi abbiamo anche da salvare certe sicurezze, sia pure criticamente conservate; non possiamo rimettere a zero in assoluto i criteri morali del nostro comportamento.
PRIMA LETTURA: Is 35, 4-7- SALMO: 145- SECONDA LETTURA: Gc 2, 1-5- VANGELO: Mc 7, 31-37
… Vorrei che la parola fosse intesa nella ricchezza antropologica che ha. Il linguaggio non è solo la parola: è la capacità di comunicare, di ascoltare e di trasmettere. Siamo allora sordomuti noi stessi. Perché nella storia di coloro – e alludo in questo momento al fenomeno che ho ricordato prima – che si volgono verso di noi con rabbia, c'è, molto spesso, l'impossibilità di comunicare. C'è l'esperienza della frustrazione conseguente alla impossibilità di esprimere i bisogni i desideri, l'amore. Questa ferita è forse, nelle anime 'più sensibili, più grave e più disastrosa. Se uno è tradito nell'amore, ma ha un cuore gretto, non è che poi vada ad uccidersi. Ci passa sopra facilmente. Solo chi nell'amore ha esigenze profondissime, può anche cadere nella disperazione del suicidio, se è tradito. Noi ci siamo costruiti una specie di periostio difensivo; la nostra relativa ottusità è garanzia di sanità e di normalità di esistenza. Ma siamo proprio sicuri? Il male è sempre reciproco: se c'è uno che non ascolta e non sa parlare, vuol dire che ha dinanzi a sé uno che non ascolta o non sa parlare. Il male avviene nella dialettica dei rapporti: se ci sono settori, ceti sociali emarginati, è perché ci sono gli emarginanti che sono, a loro volta, esclusi da una totale e universale umanità. Ripenso, in questo momento, ad un amico di molti di noi, a un testimone evangelico di gran valore come don Milani, che ha dato la parola ai muti e ha dato l'udito ai sordi. Però, per far questo, ha ricordato alle professoresse e ai professori, che erano loro i sordi e i muti. E solo se noi ci riconosciamo, dinanzi all'escluso, all'emarginato, a nostra volta emarginati da una pienezza di misura umana, solo allora cominciamo ad imparare l'alfabeto della comunicazione. Però è difficile, specie quando si paria da questi pulpiti, partire da questo dubbio radicale, da questa messa in sospetto di se stessi. A volte è di moda questo sospetto, ma non è sincero. Noi ci aggrappiamo a spessori di linguaggio consolidato che ci rende accettabile e gradibile la consorteria degli omogenei. Ma ci rende incapaci di dir parole che abbiano un senso per sordi e muti. Questa messa in crisi del linguaggio (e quindi, al di là del linguaggio, della coscienza) è un avvio di salvezza che ci porta a non sfuggire gli incontri che ci mettono in crisi. Il che non vuol dire cadere nello stesso vizio. Noi abbiamo anche da salvare certe sicurezze, sia pure criticamente conservate; non possiamo rimettere a zero in assoluto i criteri morali del nostro comportamento. Lo possiamo fare a livello critico della coscienza. Soltanto allora ci accorgiamo che eravamo sordi ed eravamo muti. Vi sarà capitato, ad esempio, (la casistica è molto diffusa) di aver ripensato poi, con una attenzione che in un primo momento vi sembrava impossibile, a parole dissacranti, offensive e sacrileghe che avevate ascoltato. A un certo momento quelle parole vi sono penetrate dentro. Sembravano dettate da odio, da stoltezza e portavano, invece, un germe di provocazione sapienziale: aprivano le vostre orecchie, aprivano le vostre labbra a parole diverse. lo penso che per metterci in situazione evangelica, noi dobbiamo essere così. Non dimentichiamoci che Gesù, che liberava i sordi e i muti – non solo in senso fisico, ma anche in senso morale e sapienziale – era considerato un pazzo, un folle. Gesù non andava verso gli esclusi per conto del sistema, come può andare, non so, un maestro inviato dal ministero a fare la sua scuola in un villaggetto di montagna con un programma sorvegliato opportunatamente dalle autorità competenti. Gesù non era inviato se non dal Padre, come dire da nessuno, a livello storico-sociale. Perciò egli era considerato un pazzo: diceva cose che turbavano profondamente i detentori delle tavole di saggezza. Per questo fu vestito da pazzo prima della crocifissione. Quella veste da pazzo non fu un episodio fortuito, ma il simbolo di come fu considerato dai contemporanei: un pazzo che diceva cose stolte. Ebbene, proprio perché Egli si fece pazzo entrò nella sfera segreta della coscienza umana e ancora oggi ci dice parole che, certo, possono passare per pazze nei dovuti ambienti. Ce ne sono ancora parole evangeliche pazze da non prendere troppo sul serio, perché altrimenti rischiamo di turbare quel minimo equilibrio sociale che pure abbiamo. Questa pazzia ci è entrata dentro e sentiamo che da lì si potrebbe cominciare per capire che il bambino non è un recipiente da riempire di parole nostre, ma è un maestro da ascoltare; un emarginato, un degenerato, un peccatore pubblico: prima di essere oggetti da redimere, sono soggetti da ascoltare, voci che vengono da quel mondo che non conosciamo. Questa passione per l'universalità umana abolisce la cattedra, i pulpiti, e le università, per mettere in primo piano una circolazione di sapienza i cui portatori non sono quelli con la patente. Sono dovunque, anche nei ghetti degli emarginati, anche tra i drogati. È così che si rompe questo reciproco gioco di sordità, per cui chi ode, crede di udire, ma è sordo, e quello che crediamo sordo, invece ascolta e capisce molto bene. Rompiamo questo gioco del codice culturale di cui siamo vittime e ritroviamo la umanità sorgiva, il ricominciamento da capo di cui parlavo prima, come metodo di esperimento umano ed evangelico richiesto sempre di più dalle attuali, tragiche circostanze. Dico tragiche, se è vera la mia ipotesi, che questi sintomi di disgregazione della compattezza sociale sono appena un inizio di un processo che ci metterà dinanzi a separazioni più radicali. Questo ricominciar da capo vuol dire farsi carico sul serio dei segni del tempo, letti alla luce del Vangelo.
Ernesto Balducci – da: “Il mandorlo e il fuoco” – vol. 2