7 Febbraio 2016 – 5^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C
7 Febbraio 2016 – 5^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno C
Il nostro occhio deve essere buono con gli altri come è buono l’occhio di Dio con noi. Quando abbiamo sperimentato la misericordia di Dio non ci verrà mai sulle labbra il severo giudizio moralistico, questa lebbra di cui solo attraverso il fuoco della fede potremo liberarci.
PRIMA LETTURA: Is 6,1-2.3-8- SALMO: 137- SECONDA LETTURA: 1 Cor 15,1-11- VAN-GELO: Lc 5,1-11
…Si può dimostrare l’esistenza di Dio, e si può dimostrare che Dio non esiste: le due posizioni sono razionalmente equivalenti. ma il dio che si dimostra non ha a che fare con quello di cui sto parlando, perché a priori esso è un Dio che non si dimostra. Io lo percepisco come presenza, oppure lo costruisco, dimostrandolo, come un feticcio che dura quanto dura la cultura in cui sono rimasto inserito. Ebbene, questo è vero anche a livello morale. A livello morale chi ha fede sa di essere un peccatore. Che significhi questo non è dicibile secondo i concetti con cui si traduce la coscienza morale. Essere pecca-tori vuol dire sentirsi inseriti in una situazione difettiva, inadeguata, per cui ad esempio lo stesso parlare di Dio diventa impuro. Parliamo del Dio Santo con labbra impure. Sento che le certezze che esprimo sono così lontane dal mio modo di vivere che me ne vergogno, per cui preferirei non dirle. Questo avvertimento della disparità profonda tra la santità di Dio e la nostra condizione umana è la cognizione del peccato, che è la cognizione di un modo di essere così comune che non mi verrà mai in mente di dirmi migliore di chi non va in Chiesa, di chi non crede. Questa distinzione tra buoni e cattivi ha un suo fondo ideologico. Il credente sa di essere peccatore, non si scandalizza dinanzi alle meretrici, ai ladri. Lotta contro il male, ma sapendo di essere anche lui nel male comune. L’orgoglio cattolico, che è stato una funesta escrescenza storica, dobbiamo combatterlo. Esso è il fatale prodotto di un rapporto con Dio basato sulla presunzione farisaica. Appena conosciamo Dio sentiamo, come Isaia, di avere le labbra impure, sentiamo come Pietro di essere peccatori, o come Polo, di essere degli abortivi. Questa confessione di indegnità non è la colpevolezza che la psicologia vede come un funesto processo della religione, è invece un’esperienza altamente liberante, perché ci mette fuori della scacchiera dove ci sono i quadrati bianchi e i quadranti neri, i buoni e i cattivi. A livello della fede sappiamo che abbiamo un dovere di fedeltà che ci porta al di là del bene e del male. Ricordate le famose controversie sulla tesi luterana «pecca fortemente ma credi di più»? In questa affermazione della fede non c’è nessuna le-gittimazione del comportamento moralmente indegno, c’è il rifiuto di distinguersi dagli altri. L’umiltà profonda che nasce dalla fede è un’umiltà umana. Quando c’è un vero credente ve ne accorgete: non giudica gli altri perché ha giudicato se stesso, e quando si batte il petto e dice: «per noi peccatori» lo dice sul serio e non per fare una cerimonia. Dobbiamo l’uno a l’altro pietà e misericordia e non durezza di cuore, perché noi saremo perdonati da Dio nella misura in cui perdoniamo ai fratelli. Il nostro occhio deve essere buono con gli altri come è buono l’occhio di Dio con noi. Quando abbiamo sperimentato la misericordia di Dio non ci verrà mai sulle labbra il severo giudizio moralistico, questa lebbra di cui solo attraverso il fuoco della fede potremo liberarci. Il terzo momento, in questa struttura dell’esperienza di fede, è La necessità che la presenza che abbiamo sperimentato si faccia presente («manda me»). Anche qui non si tratta di vocazioni da conquistatori, da gente che va a far proseliti. Quante volte l’apostolato è diventato proselitismo e perfino discriminazione politica! Dio si trasmette solo perché si fa presente, non perché si fa chiacchiera, discorso, argomentazione. O Dio è presente in chi ne parla, oppure le parole producono ateismo anche sotto forme di consenso intellettuale a Dio. Dio si trasmette come forza vitale. Ogni qualvolta ho potuto incontrare qualcuno che potevo chiamare, con certezza morale, uomo di Dio (non nel senso vieto ma nel senso autentico) ho percepito questa presenza di Dio. E chi lo toccava, se era ammalato, sentiva uscire da lui una potenza che sanava, Questa potenza di Dio in Cristo è la sua divinità.
Ernesto Balducci – da “Il Vangelo della pace” vol. 3 – Anno C (1979/80)