6 dicembre 2020 – 2° DOMENICA D’AVVENTO – Anno B
6 dicembre 2020 – 2° DOMENICA D’AVVENTO – Anno B
PRIMA LETTURA: Is 40, 1-5.9-11 SALMO: 84 – SECONDA LETTURA: 2 Pt 3, 8-14 VANGELO: Mc 1, 1-8
…Dobbiamo vivere con la preoccupazione di modificare noi e il mondo che è attorno a noi perché finalmente il bacio fra pace e giustizia avvenga. Quello è il grande giorno verso cui siamo mossi. Convertirci cristianamente vuol dire vincere dentro di noi la fiducia nella mezza verità che è rappresentata dalla forza, dal braccio armato, dal Dio che viene verso di noi preceduto dai suoi trofei, dal Dio che ha pronta la punizione per i cattivi, dal Dio che esalta la propria onnipotenza o l'inferno in cui i suoi saranno per sempre condannati. Questa immagine di Dio è una immagine che riflette la nostra situazione di angoscia, il nostro incubo storico, il nostro bisogno di estendere oltre i confini della storia la volontà di vendetta. C'è qualcosa di funesto in noi anche quando parliamo di Dio e il miglior modo di parlare di Lui e del tempo che è il Suo – quello che descriviamo con la nostra tripartizione Paradiso, Inferno, Purgatorio – è di consegnarlo al Suo silenzio, al Suo mistero senza voler anticipare nelle nostre sentenze inappellabili quello che è il giudizio di Dio, che io immagino come un Dio che tiene al suo seno l'agnello e forse anche i malvagi della terra, che quando li nominiamo lo facciamo con ribrezzo, saranno agnelli nel suo seno. Non tocca a noi il giudizio perché la malvagità del mondo non può essere che ripartita fra tutti noi e colui che a volte è il più malvagio è soltanto il punto in cui esplode una malvagità collettiva, una complicità immensa. I fatti della nostra storia attuale, se fosse questo il momento, potrebbero dimostrarci, analizzandoli, come il tiranno che sorge non è che il punto di escrescenza di una malvagità estesa che coinvolge anche i suoi momentanei avversari. Stendiamo sulla malvagità umana questo velo della misericordia di Dio, senza presumere con questo di abolire il nostro dovere di distinguere il bene dal male, il giusto dall'ingiusto. Lo dobbiamo fare nel sentimento che siamo chiusi dentro un cerchio breve in cui le cifre, i consuntivi sono del tutto provvisori, sono sotto sospensione perché l'ultimo conto avviene nella giustizia di Dio che è una giustizia di pace. Chiedo scusa di queste divagazioni quasi necessarie alla logica del mio discorso. Ritornando adesso a cogliere l'annuncio dell'Avvento che sta al centro della liturgia d'oggi, diventare cristiani vuol dire superare l'occhio freddo che ama la giustizia, per aprirci a ciò che vien dopo, alla pace, e dobbiamo impegnarci a far sì che questa novità si realizzi già ora in noi. Io devo far di tutto in me perché il mio impegno evangelico sia non duro, ascetico, pronto a vedere il male ovunque, ma sia espressione di pace. Dobbiamo essere testimoni di un Vangelo di pace che non distingue noi dagli altri: i nemici della Chiesa, i nemici di Dio … Quante cose funeste abbiamo inventato in questa nostra presunzione di possedere la verità e di fame un randello contro gli altri. La pace si realizza in noi ed è diffusiva. È una esperienza labile, lo so, imperfetta perché porta in sé forse anche tolleranze indebite, come quella del padre del figliol prodigo, che tollerava l'iniquità del figlio, sicuro di vincere, in un momento che sarebbe venuto, con l'amore. Questo atteggiamento non è rinunciatario, è coraggioso perché la giustizia armata è, come diceva Gandhi, la forza dei deboli, mentre la forza dei forti è quella senz'armi. È questa la forza che dobbiamo realizzare. La potenza di Gesù Cristo è nell'essere inerme come un agnello. E ciò che viene dopo che dobbiamo preparare. Tutto questo getta poi un senso anche nelle nostre scelte, anche per quanto riguarda la pace nel mondo e per quanto riguarda il problema del carcere e per quanto riguarda il problema della droga e così via. L'occhio che dobbiamo avere nel giudicare e nel provvedere è quello che mira a tenere uniti i due momenti e non a porre fiducia in questa terribile mezza verità che è il segno del nostro limite e che vuole soltanto giustizia e ordine a tutti i costi. Rischiare per l'uomo, porre fiducia nell'uomo, anche se è un delinquente, è un grande atto di dignità morale e anche un atto evangelico. Dobbiamo costruire un mondo basato sulla fiducia reciproca e per quanto questo mondo sia fragilissimo – per cui avviene, non appena crediamo di averlo realizzato, di vederne il fallimento pieno – dobbiamo continuamente tentare e stare attenti a non cedere all'illusione di questa mezza verità che è la mezza verità della giustizia, del carcere duro, del manicomio riaperto, del drogato in carcere. E una verità che distrugge nonostante le apparenze. Dobbiamo abbracciare l'altra verità almeno come una prospettiva da costruire faticosamente. Questo è il modo di calare nel tempo la dialettica fra l'età di Giovanni Battista e l'età di Gesù Cristo. Gesù dirà: «Giovanni Battista è il più grande dei profeti, ma il più piccolo nel regno di Dio è più grande di lui» per indicare questa qualità nuova dell'esistenza, che è quella della pace in cui sono beati i miti, non i forti, in cui i poveri passeggiano signori nella città distrutta dalla logica del potere. Il profeta dice: «Il passo dei poveri batterà le macerie delle fortificazioni distrutte». Questa fiducia non è ingenua, come pensa la sapienza funebre e seria dell'epoca della giustizia armata, è una verità fragile come volo di colomba. Può veramente all'improvviso essere colpita e ferita, però è l'unica verità per cui merita veramente di vivere. Così costruiamo faticosamente nel tempo l'avvento del regno e scopriamo attorno a noi che sono molti coloro che preparano questo regno. Non siamo noi i predicatori. Questo regno nasce, germoglia dalla terra, germoglia dalle viscere dell'uomo che intanto ha una luce di speranza e di gioia in quanto ha fiducia in questa possibilità. Altrimenti declineremo tutti nella barbarie e nella distruzione reciproca.
Ernesto Balducci – da: “Gli ultimi tempi” – vol. 2