5 Gennaio 2025, 2° Domenica dopo Natale
Prima Lettura Dal libro del Siracide, Sir, 24, 1-4. 8-12
Salmo 147
Seconda Lettura Dalla lettera di San Paolo apostolo agli Efesini Ef 1,3-6. 15-18
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Dal Vangelo secondo Giovanni Gv 1, 1-18
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Nella rivelazione che noi professiamo c’è un momento decisivo: è quello
dello Spirito Santo. Il Gesù in cui crediamo è il Gesù secondo lo Spirito. E lo
Spirito riempie l’universo e i tempi. In Gesù di Nazareth c’è una permanente
contemporaneità all’uomo. Egli appartiene secondo la carne, a venti secoli fa, ma
Egli appartiene, secondo l’intenzione di Dio, secondo il linguaggio permanente di
Dio, al tempo di ogni uomo, per cui Egli è la risposta di Dio al mio problema.
Quando i primi cristiani parlavano della sapienza eterna e del Logos, sapevano di
che parlavano. Essi utilizzavano parole che erano innervate nella cultura del loro
mondo, ma noi, quali parole useremo? È morto quel linguaggio perché abbiamo
altri atteggiamenti. Negli uomini di cultura e nei semplici; nei movimenti collettivi
della storia e nei crolli delle vecchie istituzioni che sembravano immortali, noi
vediamo che c’è una ricerca dell’uomo. In questa ricerca che senso ha quest’Uomo
che noi chiamiamo Gesù di Nazareth? Può ancora risponderci? E come dovremmo
tradurre la nostra fede, pur rimanendo fedeli a ciò che ci è stato annunciato dopo la
Resurrezione?
Ecco, questo è l’interrogativo fondamentale. E dobbiamo dirci, per chiudere: nulla
di strano che una volta che noi abbiamo voltato le spalle a ciò che è già saputo a ciò
che è già sistemato, perché il nostro spirito non vi trova risposta, noi acquistiamo il
terribile, doloroso diritto di balbettare, di reinventare il modo di parlare di Dio senza
essere interiormente condizionati dalla paura delle scomuniche e dei terrori
religiosi. Noi dobbiamo parlare di Gesù con un linguaggio nuovo che sia autentico,
rispondente, dunque, all’annuncio che ce ne fecero gli apostoli e rispondente agli
interrogativi che nascono da noi, e che ci pongono in un’ottica esistenziale
profondamente diversa. L’asse dell’esistenza si è spostato, il riferimento religioso è
rimasto spezzato: come potremo ancora parlare di Lui?
Ecco l’interrogativo che ci poniamo. Un modo, quanto di stimolare la nostra fede a
non sedimentarsi nelle abitudini, di riprenderla in mano — per così’ dire — con i
suoi diritti di fondo. E il diritto della fede, non dimentichiamolo mai, essendo essa
un atto supremo della libertà dell’uomo, l’atto più libero che possa concepirsi in
una creatura, è di crearsi gli strumenti e le forme del proprio essere e del proprio
esprimersi, pure all’interno della coralità della fede, della comunione della fede di
cui, certo, dovremo parlare. Ma senza questo momento forte, di scavo nella nostra
condizione umana, la fede appartiene alle esperienze stanche destinate a morire
nel succedersi delle generazioni. Noi siamo qui per dire l’opposto: che il nome del
Signore è un nome che dura in eterno. Passeranno i cieli e la terra, le civiltà, le
repubbliche, le monarchie e i socialismi ma il suo nome à permanente, la sua
Parola non tramonterà. Questa è la fede, sconcertante, che noi esprimiamo. E
dobbiamo non annebbiarci, non ubriacarci sotto l’enfasi delle affermazioni in cui
spesso c’è più volontarismo che sincerità, ma scontare questa certezza nell’umiltà e
nella verità della ricerca quotidiana.
Da “Il mandorlo ed il fuoco” vol.3 anno C