4 Agosto 2024, 18° Domenica T.O.

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Es 16, 2-4. 12-15; Sal.77; Ef 4, 17. 20-24; Gv 6, 24-35.

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La ricchezza dei tre brani, specie se accostati fra loro, è davvero straordinaria.
Io però vorrei limitarmi a scegliere un aspetto che, se non sbaglio, risponde
bene alle particolari inquietudini e ansie che ci distinguono in questo ultimo
scorcio di tempo. È qualche anno che si è diffusa l’abitudine, quanto mai
giusta, di ripensare a tutto il messaggio evangelico e biblico nel suo insieme
come ad un messaggio di liberazione dalla schiavitù, come ad un cammino
verso la libertà. Il luogo biblico in cui più si condensano oggi le riflessioni sul
significato complessivo della salvezza è appunto il libro dell’Esodo, nel quale
si racconta l’avventuroso passaggio di un popolo schiavo alla terra che Dio gli
aveva promesso. È un viaggio tipico, emblematico a cui si può ricondurre
davvero il senso complessivo della stessa vita e predicazione di Gesù e il
senso complessivo della nostra vita di credenti. Quando nel concilio si disse
che la Chiesa è il popolo di Dio che cammina con l’umanità che cammina, si
riconobbe in un sol momento che il senso dell’essere cristiani è nel camminare
e che questo camminare non è un cammino a sé, fatto per sentieri separati, ma
è un cammino che avviene entro il cammino comune dell’umanità. È una
affermazione pregnante che senza dubbio
corrisponde ad un bisogno di rinnovamento di fede che attraversa il mondo
cristiano. Il quale diciamolo subito per lasciare questo spunto polemico — in
gran parte è un popolo che non vuol camminare. Rimpiange i tempi della
sicurezza, quando tutto era così chiaro, così univoco e nelle predicazioni e
nelle direttive, nella morale privata e pubblica. Entrati in zona di insicurezza
troppi rimpiangono quel tempo. Essere credenti invece significa riscoprire di
continuo la necessità del camminare, dell’andare avanti. Questa riflessione in
qualche modo si lega all’attualità. Proprio in questi giorni è morto un grande
pensatore (Marcuse) che era stato assunto dai movimenti di protesta come un
profeta e che di fatto ha le qualità del profeta se noi spogliamo l’immagine dei
profeti dai connotati religiosi. Questo pensatore ha favorito un ripensamento
globale di tutte le ideologie rivoluzionarie in chiave di liberazione, il cui
soggetto non è una classe soltanto, ma è quella porzione di società che avverte
su di sé il peso della schiavitù. Egli ha ben colto i caratteri della schiavitù che
soffriamo in questi anni. Egli ha parlato dell’intolleranza permissiva. Noi
siamo in una società permissiva al massimo, però profondamente intollerante,
che ci ha rubato l’anima, così come i farisei avevano rubato l’anima a questi

israeliti che in fondo rimpiangevano il tempo della schiavitù per i vantaggi
immediati che essa portava. Noi siamo in una società che ci permette
comportamenti profondamente lontani dalla legge morale, ma che però è
assolutamente rigida nell’obbligarci a un modo di vita da cui è praticamente
impossibile uscire. Vediamo anche in questi giorni che cosa può capitare
quando si scompongono le articolazioni del modello di vita consumistica in
cui siamo naufragati in pieno. Si è non dico dall’esterno, che sarebbe poco, ma
all’interno della stessa coscienza uno standard di comportamento per cui chi
non può assumerlo e viverlo si sente già per questo frustrato, avvilito,
emarginato. Infinite frustrazioni nascono là dove non ci si aspettava che
nascessero. Un tempo ero abituato a pensare che i poveri fossero tristi, e che la
loro tristezza fosse il riflesso della povertà materiale, È vero, certo. Ma ormai,
tutti voi lo vedete, la tristezza, e l’insofferenza scaturiscono là dove non
sappiamo perché debbano scaturire, La ragione del fenomeno è
l’intollerabilità, ormai, di una forma di esistenza che non ci appartiene più, che
ci viene imposta e da cui ci sembra impossibile sottrarci, perché di fatto tutto
concorre a reinserirci nel gregge, anche quando abbiamo volontà soggettiva di
starne fuori. L’organizzazione sociale è così stretta da rigide regole di
interdipendenza che uscirne vuol dire condannarsi all’insignificanza, allo
smarrimento, alla fine. Questa percezione di una schiavitù che passa non
dall’esterno ma dall’interno dell’uomo è un dato saliente del nostro momento
storico. E io, più vado avanti nel riflettere sulla Parola di Dio, più mi accorgo
che la sua forza liberatrice è proprio qui. La parola di Dio non libera alla
maniera delle analisi filosofiche e psicologiche, che sono importanti come
momento morale del nostro essere uomini, ma lo fa alla maniera profetica.
Possiamo ben dire che tutto il messaggio di salvezza è un messaggio di
liberazione dalla schiavitù, che non è la schiavitù del peccato generalmente
assunto come nelle buone predicazioni, ma è la schiavitù così come generi
camente si configura, momento dopo momento. Non prender coscienza di
queste forme di schiavitù attuali significa ridurre il messaggio evangelico a un
vaniloquio, adatto alle anime stanche, che cercano compensazioni del ratto
immaginarie, fuori del reale, Se davvero il Vangelo è un messaggio di
liberazione, esso deve apparire tale nel concreto vivere di tutti i giorni. L’urto
della parola porofetica dobbiamo avvertirlo non la domenica nelle prediche
ma nel vivere quotidiano, dentro l’organizzazione della società collettivistica
nella quale dobbiamo respirare a tempo giusto, riposarci nei giorni giusti, nella
quale nulla ci è possibile che non sia il previsto e consentito.

Da “Il mandorlo e il fuoco” vol.2 anno B

/ la_parola