28 Luglio 2024, 17° Domenica T.O.

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2 Re 4, 42-44; Sal.144; Ef 4, 1-6; Gv 6, 1-15.

 

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È bene utilizzare subito, nell’avvio della nostra meditazione, il brano di Giovanni per
sottolinearne alcuni aspetti che sono di grande importanza per l’intelligenza della fede. In
genere, nei momenti in cui nella Scrittura la condizione ideale dell’uomo viene
raffigurata, ci sentiamo fortemente coinvolti. È come se le esigenze, i sogni morali
repressi dentro di noi potessero dispiegare le ali e posarsi su dei simboli in cui
trovar pace. Questa montagna in cui Gesù si trova è evidentemente un simbolo, perché i
profeti alludono sempre a questo monte santo, a questa realtà sopraeminente, che sta
sopra la pianura faticosa della storia e nella quale avranno adempimento le attese umane.
Questa folla sterminata, seduta sull’erba che mangia del pane miracoloso e lo mangia
possiamo immaginarlo festivamente, in gioia, in stupore, è la raffigurazione di una
umanità affratellata convivialmente. Il convivio è nel Vangelo (ma non solo nel Vangelo)
il simbolo di una fraternità non statica o astratta o spiritualistica, ma piena, che coinvolge
l’istinto, nella nutrizione, e lo spirito, nello scambio dell’affetto, nel colloquio. Il
banchetto evangelico è appunto l’immagine di questa umanità perfettamente compiuta.
Ma la debolezza del Vangelo è proprio qui, Dove è la sua forza. Ci domandiamo: come è
possibile realizzare una umanità finalmente liberata dalla fame, senza poveri, fraterna? È
pericoloso abbandonarci alla bellezza del sogno. È un modo di distribuire oppio, come è
stato giustamente detto, a coloro che invece la fame 1a sentono, e non c’è pane
miracoloso che la possa saziare. Non è forse un modo di tacitare, di contenere nell’inerzia
lo scatto della ribellione che potrebbe creare giustizia? Sono obiezioni che giustamente
dobbiamo accogliere.
Ed è qui il punto più delicato di tutto il discorso di fede. Il Vangelo di oggi chiude con
l’immagine di Gesù che si ritira da parte. Come vi dissi domenica scorsa, non è solo un
tratto letterario, è un momento emergente di tutta la sapienza evangelica. Questa folla che
voleva fare re l’uomo del miracolo è dominata dall’istinto di potenza. Avere un re che
assicura il pane miracolosamente è l’optimum che si possa ottenere. E Gesù si ritira,
fugge. Fugge dalla storia, perché la storia, nel concreto suo divenire, è una lotta per
raggiungere il pane, per raggiungere la giustizia economica. Gesù in questo momento è
isolato, non c’è. Egli occupa, per così dire, l’orizzonte ultimo e sembra essere assente dalle
tappe del cammino storico. Accende luci negli obiettivi estremi della storia e lascia buio
nel presente. Così sembrerebbe
Ed è proprio per rispondere a questo interrogativo che vorrei interpellare con più forza la
Scrittura di oggi. Noi non possiamo più parlare dei poveri, con l’innocenza (soggettiva)
del passato, quando educare alla bontà verso i poveri, a un costume di presenza ai poveri
(ben dosata, nel tempo e nelle misure) mirava a colmare alquanto l’abisso fra l’Epulone e i
Lazzari ma senza modificare il loro stato in modo che gli Epuloni sopravvivessero e
sopravvivessero i Lazzari. I poveri erano una figura sociale necessaria come le stelle del
cielo e le montagne. Esser cristiani voleva dire esser buoni con loro, larghi con loro. Ora,

non possiamo non tener conto di un fatto avvenuto all’interno della coscienza
dell’umanità. Nel metodo della riflessione cristiana è essenziale assumere la storia del
mondo come momento diretto della rivelazione di Dio. C’è una teologia (che è inutile
spiegare, di cui dico il succo essenziale che io condivido) secondo la quale gli eventi
della storia sono essi stessi portatori di verità, parlano come parola di Dio. Emergono dal
fondo dell’umanità possibilità nuove che ieri nemmeno si sognavano e che coincidono
con obiettivi ultimi della profezia cristiana. E quelle nuove possibilità sono parole di Dio
emerse nel cammino del mondo. Non c’è dubbio che da qualche tempo, in alcuni luoghi,
con molta forza, si è compreso quel che i primi cristiani non potevano comprendere
perché essi avevano la coscienza storica di quel tempo. Accettare il Vangelo non voleva
dire allora uscire da una cultura; ci restava dentro! I limiti di coscienza di una data cultura
rimanevano. I consigli di Paolo sul comportamento della donna nell’assemblea cristiana
rivelano ad esempio un costume sociale che sarebbe stoltezza assolutizzare: preendere a
modello. Anche Gesù visse una sua cultura. Il messaggio profetico che si esprime
attraverso simboli propri di un certo tempo, li sorpassa e fa appello a noi perché li
svestiamo di quei simboli e li riempiamo di nuove formule, di nuove indicazioni, di nuovi
strumenti espressivi. Questa è la dinamica del divenire dell’uomo Ebbene, non c’è dubbio
che una improvvisa pubertà di coscienza è scoppiata. Noi sappiamo che i poveri prima di
esser un dato di fatto sono un prodotto: variante fondamentale! La povertà è un prodotto
di un certo modo di organizzare la società. I poveri non sono dunque l’espressione di un
disegno di Dio, come se Dio li avesse previsti e voluti: sono un prodotto dell’uomo.
Percio non possiamo accostarci a loro senza tener conto delle cause che li producono.
Questo mutamento di coscienza e un fatto di enorme importanza. Se noi non passiamo
attraverso questa consapevolezza, la stessa parola del Vangelo diventa sterile. E per
mostrare che in fondo nel voler congiungere questa consapevolezza morale nuova e il
Vangelo non facciamo che battere una via tradizionale basta ricordare l’insistenza con cui,
contro gli spiritualisti esagerati, sempre, nella storia della fede, ha prevalso l idea che i
principi morali sono il mezzo con cui la fede si traduce in storia: La fede senza le opere e
morta dice la lettera di Giacomo
Da “Il mandorlo e il fuoco” vol.2 anno B

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