26 Febbraio -2017 – 8^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno A
26 Febbraio -2017 – 8^ DOMENICA TEMPO ORDINARIO – Anno A
Occorre inaugurare una cultura diversa, una cultura in cui ciò che conta innanzitutto è un rapporto gratuito, non è l'utile che tutto decide, ma è il bello e il buono … Lo so che qui scivolo nell'utopia, ma questa volta l'utopia mi ritorna in mano per forza delle cose.
PRIMA LETTURA: Is 49, 14-15- SALMO: 61- SECONDA LETTURA: 1 Cor 4, 1-5- VANGELO: Mt 6, 24-34
…Quando nei linguaggio evangelico si dice «signoria di Dio» si vuol dire amore dei fratello perché il Dio di cui si parla è il padre che non dimentica i suoi figli. «Anche se una madre fosse capace di dimenticare il frutto dei suo grembo Dio non si dimentica dei suoi ». Il rapporto fra l'uomo e l'uomo deve essere la espansione capillare di questo amore che tutto investe : una atmosfera invisibile. Se la cosa che posseggo diventa uno strumento di sfrut-tamento, si oscura il mondo tutto si perverte, anche il mio cuore, perché ogni padrone è un uomo disumano. Dico padrone per significare uno che ritiene di avere il diritto di decidere del destino degli altri. Ecco perché l'aboli-zione dei capitale – a mio giudizio – rappresenta un passaggio necessario in questa ricerca di una umanità autenti-ca, perché chi può decidere dei destino degli altri senza nemmeno consultarli, come un despota, già è disumano perché simula la potenza di Dio, perché è lui che decide il giusto e l'ingiusto ed ha anche lo strumento per mani-polare le coscienze dei suoi servi. Non parlo di cose antiche, parlo di cose di oggi. Ci siamo tutti dentro, natural-mente. Ogni giorno – non so se a voi capita – sento il bruciore di questa ingiustizia perché anche l'informazione sui fatti, magari di Firenze, non si sa dove averla, dato che chi possiede la ricchezza, possiede anche lo strumento per informarci. Siamo chiusi dentro questa prigione. Non possiamo perciò non riconoscere che una sorgente di iniquità nei confronti degli uomini è in questo potere concesso ad un uomo di decidere a suo arbitrio del destino degli altri. Non basta questo. Occorre inaugurare una cultura diversa, una cultura in cui ciò che conta innanzitutto è un rapporto gratuito, non è l'utile che tutto decide, ma è il bello e il buono … Lo so che qui scivolo nell'utopia, ma questa volta l'utopia mi ritorna in mano per forza delle cose. Noi dobbiamo dare sommo valore a ciò che dà sviluppo alle autentiche esigenze umane. L'uomo – ce ne accorgiamo sempre di più – non può essere senza «ave-re»; nell'uomo l'essere e l'avere non si dividono come con un rasoio. Un uomo è un uomo perché ha una moglie, ha dei figli, ha una cultura. L'avere è anche l'insieme dei rapporti con gli esseri umani che hanno nei nostri con-fronti un particolare vincolo, una particolare condizione. L'avere di per sé non è il male. L'essere umano cresce attraverso questa dialettica con l'avere. Quello che è decisivo è innanzi tutto la possibilità di vivere con gli altri al di fuori della pura categoria dell'utile. Si apre allora questo orizzonte simbolicamente rappresentato dal Vangelo: di che ci preoccupiamo? Noi sappiamo – ad esempio – che il prodotto cumulativo dei cereali sulla terra è suffi-ciente a sfamare tutti gli uomini e invece metà degli uomini muore di fame. Da che dipende? «Non vi preoccupa-te … ». Ci dobbiamo preoccupare di distribuire i prodotti della terra a tutti gli uomini. E qui la nostra iniquità: nell'avere, in conseguenza di questa corsa sfrenata alla ricchezza, determinato una equazione che non può essere considerata come un dato di fatto da cui partire per poi effondersi dinanzi Dio. Chi prega senza tener conto di questa ingiustizia deve accorgersi che dalle sue mani alzate al cielo gronda sangue. Noi dobbiamo preoccuparci di ciò che noi compete, del nostro usare delle cose, del nostro amare i fratelli non nelle parole ma nei fatti, e per-ciò, modificare il nostro rapporto con la produzione e il consumo in modo che sulla terra nessun fratello sia senza di che vestirsi e di che mangiare. Solo così possiamo aprirci al Padre che è nei cieli. Ma fino a quel momento noi non potremmo deporre la nostra offerta sull' altare perché fuori del Tempio c'è qualcuno – qualcuno si chiama «un miliardo di uomini» – che ha qualche cosa contro di noi. Se noi allacciamo, come del resto fa il Vangelo, sia pure con un linguaggio lontano dal nostro, Dio e il fratello, l'uomo e le cose, comprendiamo il senso di questa sa-pienza e abbiamo anche il diritto di commuoverci di fronte alle bellezze della natura n cui si riflette questa prov-videnza del Padre. Questa ammirazione non sarà un alibi comodo per liberarci dalle responsabilità, sarà un modo di capire quale potrebbe essere la forma di una esistenza autenticamente umana. Come un poeta romantico che parlando degli uccellini diceva: «mi commuovono perché noi saremo come loro». È una specie di riflesso del Vangelo: noi saremo come i gigli del campo e gli uccelli dell'aria nel so che se noi avremo realizzato la giustizia, noi conosceremo i miracoli dell' amore. Ma fino a quel momento non li conosciamo perché anche i nostri rappor-ti gratuiti sono viziati da un sottinteso iniquo. Anche i bambini che ci danno letizia nel vederli sono però frutti di un privilegio. Finché non avremo fatto giustizia, finché quindici milioni di bambini all'anno non moriranno più di fame, fino a quel momento noi non abbiamo nemmeno il diritto di gioire dei nostri bambini perché e su di loro pesa il contagio di una ingiustizia, del privilegio di cui godono. Ecco perché siamo avvelenati. Ecco perché anche le parole del Vangelo, che nascono da una sapienza anteriore al mondo, entrano nel nostro mondo ma vi giocano ambiguamente. Di queste parole si sono serviti i ricchi per dire ai poveri di guardare gli uccelli del cielo e i gigli dei campi. Sono parole che sono state contaminate, come le parole sublimi quando entrano in una società iniqua, da un cattivo uso. Nel concludere vorrei ridirvi: stiamo attenti a queste parole in modo indebito. Dobbiamo trarne una luce di sapienza che ci permetta di portare il peso delle nostre responsabilità senza presumere di essere puri. Nessuno dei presenti è puro, senza peccato a questo riguardo. Queste parole non sono un lenitivo, non sono una musica dolce attorno alla nostra prigionia di gente feroce, sono l'indicazione di una prospettiva di esistenza in cui, esauriti i compiti della giustizia, nasce il vero mondo umano in cui non ci preoccuperemo del domani perché la vita sarà proprio come quella degli uccelli del cielo e dei fiori dei campi, basata sulla spontaneità della libertà e dell'amore.
Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol. 1