23 Giugno 2024, 12° Domenica T.O.
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Prima Lettura Dal libro del profeta Ezechiele Gb 38, 1. 8-11
Salmo 106
Dalla seconda lettera di San Paolo ai Corinzi, 2Cor 5, 14-17
Dal Vangelo secondo Marco Mc 4, 35-41
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Mi domando: non dovrebbe essere, appunto, questa la natura di noi come
Chiesa? di essere strumento di un Regno diverso: sacramentum futuri,
sacramento del futuro?
Di fatto noi siamo costretti a tracciare un consuntivo opposto; la barca di
Pietro ha cercato ormeggi sicuri, golfi tranquilli e protezioni potenti. Di qui il
rimprovero del Signore che coglie gli apostoli in fragrante peccato: « Perché
avete paura? ». Certo abbiamo molte ragioni umane per avere paura. Ma se
andiamo in fondo vediamo che la nostra paura svela un peccato di complicità
con la realtà di questo mondo. Noi siamo succubi degli elementi del mondo,
per questo abbiamo paura!
Le ore storiche in cui siamo chiamati a manifestare la nostra fede sono
soprattutto le ore in cui ci viene richiesto di tagliare gli ormeggi che ci danno
tranquillità stabile, appartata dagli orizzonti delle speranze verso cui si
muovono con passione legittima coloro che non hanno nessuna ragione di
amare questo mondo. Per una specie di legge fisica la speranza delle cose
nuove si va a depositare in mezzo a coloro che non hanno nessuna ragione di
amare le cose vecchie. Noi ne abbiamo tante di ragioni: la cultura che
abbiamo acquistato (vecchia ma prestigiosa), la nostra organizzazione sociale,
le nostre organizzazioni economiche che ci garantiscono un’agiatezza o,
quanto meno, una sicurezza elementare riguardo al futuro! Noi abbiamo molte
ragioni di difenderci. I poveri non hanno altro tesoro che la speranza di
cambiar tuttó. Ecco perché il Regno di Dio, per una specie di legge di
gravitazione, va a finire sempre lì. E benedetti coloro che se ne accorgono o
quantomeno tendono la mano non solo per aiutare i poveri, ma per essere
aiutati dai poveri, per partecipare al loro privilegio che è quello della
speranza.
Ma non è questo che volevo dire. In queste letture mi colpisce la
contrapposizione solenne tra la potenza di Dio che stabilisce confini al mare e
la violenza della natura. Sono veramente i due termini del grande conflitto in
cui siamo calati. Da una parte la natura, che non ha nessun riguardo per
l’uomo. La natura ci minaccia e spesso ci travolge. E quasi ce ne
dimentichiamo se di tanto in tanto non si scoprisse che di fronte alla forza
della natura abbiamo fragilità antiche, preistoriche: un terremoto basta a
buttare a terra le nostre costruzioni. Ma possiamo estendere il discorso al
nostro modo quotidiano di vivere, individuale e associato. Mi pare che per
nostra tendenza, anche teorica — nell’ambito cattolico questo peccato è stato
compiuto in modo eccessivo noi miriamo a darci sicurezze che siano come
quelle che dà la natura. Organizziamo la società e stabiliamo principi naturali
inviolabili. Cioè; mentre dovremmo vivere secondo la potenza di Dio che crea
cose nuove e mette un argine alla natura, noi in realtà abbiamo inserito la
nostra vita morale e la nostra vita sociale dentro le immutabili leggi di natura.
Se volessimo individuare la linea in cui si scontrano la fede nel Dio che crea
cose nuove e la sudditanza alle leggi di natura che trionfano nella nostra vita,
dovremmo trovarla là dove, nella nostra coscienza, il peso delle abitudini,
della mentalità stabilita, vorrei dire della nostra stabilizzazione storica, e la
provocazione che ci viene dalla novità di Dio, si incontrano. È proprio lì che
noi decidiamo del nostro destino.
Da “Il mandorlo e il fuoco” vol.2 anno B