17 Novembre 2024, 33° Domenica T.O.
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Prima Lettura Dal libro del profeta Daniele Dn 12, 1-3
Salmo 15
Seconda Lettura Dalla lettera agli Ebrei, Eb 10, 11-14 18
Dal Vangelo secondo Marco Mc 13, 24-32
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Una settimana fa mi trovai a partecipare, come esterno, ad un congresso internazionale
di astrologia. Il tema de1 congresso era «la fine del mondo». Ciò che mi stupì, nel
contatto, fu l’enorme numero di giovani presenti. Dalle conversazioni fatte ai margini
del congresso capii che gli stessi organizzatori non si aspettavano che questa volta tanti
giovani arrivassero. Ne prendo occasione per una riflessione che piu volte mi è capitato di farvi e che ho trovato al centro di un grande libro uscito in questi ultimi giorni —
un best seller negli Stati Uniti — anche in italiano, destinato a mettere gli uomini
dinanzi alla responsabilità che essi hanno circa «Il destino della terra». Cos1 si intitola il
libro. La sua parte centrale sviluppa un tema che traduce perfettamente l’obbligo di un
cristiano che voglia vivere con fedeltà a1 contenuto specifico della sua fede e anche con
fedeltà al tempo che stiamo vivendo. Secondo l’autore, Jonhatan Shell, la generazione
che sta crescendo è nata quando già su1l’ umanità gravava, come ancora oggi grava, la
minaccia della seconda morte. Egli chiama «seconda morte» la fine del mondo. La
morte individuale l’uomo l’ha sempre avuta dinanzi a sé come prospettiva ineluttabile,
riflettendo sulla quale, così ci insegna anche l’antica saggezza pagana, l’uomo si fa
saggio. La meditazione sulla morte è principio di ogni sapienza. La seconda morte è la
morte della specie umana come tale, prospettiva che non si era mai presentata da un
punto di vista razionale. La nostra tradizione è andata fiera di se stessa proprio perché,
sgominando la paura della morte e la paura di fronte al mondo, ha messo in opera un
atteggiamento aggressivo, di trasformazione del mondo e di creazione del progresso
dell’umanità. Questi gruppi ebraici, di cui ci parla la Scrittura di oggi, che vivevano
nella prospettiva della fine del mondo, avevano come fondamento della loro saggezza
— una saggezza che per vie traverse ritorna oggi o potrebbe ritornare — il sentimento
della precarietà dell’esistenza dell’uomo sulla terra. Per l’antica sapienza greca,
l’esistenza sulla terra era qualcosa di necessario come gli astri del cielo; tutto era
concatenato nella ruota della necessità: da sempre c’erano gli uomini e sempre ci
sarebbero stati; per la sapienza umanistica moderna l’uomo sarebbe sempre stato sulla
terra soggetto di un indefinito progresso lanciato nel futuro inconoscibile. Queste
sicurezze vogliono dire molto più di quanto non sembri. Esse illuminano, esse
sostengono la coscienza individuale anche dell’uomo più semplice, che non ha letto un
libro, dato che la coscienza individuale si innesta su una trama collettiva dove si
depositano memorie, miti, archetipi di cui ogni singolo si nutre. Non possiamo vivere
come monadi: non avremmo nemmeno la parola se non accettassimo questa anonima
solidarietà che ci congiunge ai milioni di anni del passato e ai milioni di creature del
presente. Dico questo perché il senso di insicurezza del futuro è un senso nuovo che
entra fra noi da quando, per la prima volta nella storia dell’umanità, la possibilità che la
specie muoia è seria, è scientifica. Qualcuno può anche pensarci di rado, anzi può anche
pensare alla distruzione del genere umano come ad un evento estremamente
improbabile. Ma già ammetterne la possibilità cambia in radice la coscienza. Il sospetto
che il futuro non ci sia genera il crollo dell’asse della nostra razionalità umana, la quale
è sempre una razionalità prospettica. Come quando due si sposano, non fanno troppi
ragionamenti, ma per il fatto che vogliono avere figli accettano la razionalità del vivere,
hanno fiducia che il mondo valga e che ci sia un futuro al quale è bello offrire nuove
creature. Anche la morte individuale veniva accettata in quanto necessità interna ad una
vita collettiva che invece non avrebbe conosciuto la morte: anche morendo si serviva la
vita del futuro.
Queste certezze che sono — ripeto — portanti sono ormai in sfacelo. La libertà umana
c’è sempre, e certi comportamenti sono sempre imputabili alla libertà, ma la libertà non è
che un quoziente minimo delle cause che determinano i nostri atti; ci sono spinte
soggiacenti che affondano la loro dinamica nella condizione comune del genere umano.
Ebbene, oggi questa spinta al futuro non c’è più e quindi tanti fenomeni che sono segni
di irrazionalità, compresa la passione ritornante per l’astrologia, a mio giudizio vanno
inquadrati in questa paura.
Da “Il Vangelo della pace” vol.2 anno B