16 Febbraio 2025, 6° Domenica T.O.

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Prima Lettura Dal libro del profeta Geremia Ger 17, 5-8
Salmo 1
Seconda Lettura Dalla prima lettera di San Paolo ai Corinzi, 1Cor 15, 12, 16-20

Dal Vangelo secondo Luca Lc 6, 17, 20-26

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Quando mi avvenne o vi avviene — immagino che sia così anche per voi — di leggere e
soprattutto di ascoltare la serie delle Beatitudini (e delle maledizioni!) è come se un’onda
di verità emergesse dal nostro profondo, come se fossimo investiti da una verità che
conosciamo ma non sappiamo riconoscere, che è in noi — vorrei ripetere la frase di
Gandhi — «più antica delle montagne», più antica della cultura, più antica della politica e
della filosofia. E una verità che non possiamo trascrivere nel nostro linguaggio in modo
adeguato perché il nostro linguaggio è costruito su una cultura, su una visione delle cose
in cui non è vero che i poveri sono beati, in cui non è affatto vero che i ricchi hanno dei
guai. Ci troviamo, così, a dover dire, con parole inadatte, una verità che invece è
profondamente adatta a darci una consolazione anch’essa difficilmente esprimibile. È
facile che dalle cattedre dove si diffonde la cultura codificata di cui viviamo tutti i giorni
ci venga fatta l’obiezione che a dire «beati i poveri, beati i miti» rischia di giustificare il
mondo dell’ingiustizia. E una grande obiezione, ma è un’obiezione che rimane ad un
livello inadeguato perché la beatitudine enunciata da Gesù non vuole essere affatto una

esortazione a stare tranquilli, a lasciar correre che tanto questo mondo è cattivo e se ne
va. Non è una benedizione lanciata ai poveri, come purtroppo per secoli è avvenuto, dagli
uomini della sicurezza che per tener tranquille le moltitudini hanno, ricordando questa
beatitudine, distribuito oppio a piene mani. Chi fa così è il peggiore dei peccatori. Noi
che non siamo poveri, che non siamo nemmeno miti, che non siamo nemmeno dei
perseguitati, dovremmo dire queste parole con spirito di penitenza tenendoci in guardia
dal farne un uso di malizia. Ecco perché vorrei suggerirvi una fra le forme di approccio a
questa verità antica come le montagne. Essa mi viene messa sulle labbra dal versetto che
avete ascoltato: «maledetto l’uomo che confida nell’uomo».
E un versetto col quale — per così dire — ho una specie di conto personale. C’è tutta una
pedagogia in cui più o meno siamo cresciuti, che ha fatto leva su questa sfiducia
nell’uomo. Una sfiducia nell’uomo diventata criterio di vita e di sapienza. E sembrato
tanto più sapiente un uomo quanto meno si è fidato degli altri. Anche nelle famiglie c’è
questa pedagogia spicciola: «non ti fidar di nessuno, soprattutto degli amici». L’essenza
dell’educazione era la diffidenza. Una diffidenza che trovava argomenti e fondamenti ad
abbondanza. Gli uomini non sono tutti peccatori? E l’uomo non è nel peccato
originale? Questa diffidenza aveva una conclusione, non sempre detta, ma molto ovvia:
non c’era che da affidarsi a coloro che per istituzione avevano diritto a curarsi delle nostre
anime. E nato così un certo «occhio cattolico» che esprime diffidenza e la semina, che
uccide nel cuore quel germe meraviglioso che è la fiducia. La fiducia nell’uomo non è una
fiducia purché sia, come ora diremo. Del resto il versetto della Scrittura sopra citata dice
per intero: «maledetto l’uomo che confida nell’uomo che pone nella carne il suo
sostegno». Io tradurrei così, ora: non vi fidate degli uomini ricchi perché ricchi, non vi
fidate degli uomini colti perché colti, non vi fidate degli uomini che hanno potere perché
hanno il potere: non vi fidate mai». Questo sì, che è vero: la nostra esperienza combacia
perfettamente con quello che dice la Scrittura. Basta avere un po’ vissuto per sapere come
la fiducia negli uomini del potere venga tradita. Mi basterebbe raccogliermi un attimo e
fare una rassegna degli uomini di cui ho avuto fiducia perché potenti, perché ricchi,
perché altolocati, perché ben stimati, per trovarmi costretto a tirare una conclusione:
«maledetto l’uomo che si affida all’uomo». E vero! Ma non è questa la fiducia che deve
essere benedetta. Del resto guardate i Farisei che invitano Gesù a tavola per coglierlo in
errore, i Farisei che gli conducono l’adultera perché volevano giudicarla. Guardate con
che occhi Gesù li guarda: non si fida di loro. Non si fida né di Pilato, né di Caifa: non si
fida mai. Si abbandona anche alle loro trame, ma non è mai posseduto dalle loro trame.
Non riescono ad afferrare un lembo della sua anima: prendono il suo corpo ma non
toccano niente dentro di Lui. Questa libertà sovrana nell’apparente schiacciamento è lo
straordinario — anche parlando umanamente — fascino di questo Figlio dell’uomo che
non ha uguali.
Da “Il Vangelo della pace” vol.3 anno C

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