12 Aprile 2015 – SECONDA DOMENICA DOPO PASQUA – Anno B
12 Aprile 2015 – SECONDA DOMENICA DOPO PASQUA – Anno B
Ci abbracciamo e ognuno va a casa sua, chi ha e chi non ha. Il che per le persone «interiori» è una cosa secondaria. I credenti nella resurrezione erano realisti, non pensavano così.
PRIMA LETTURA: At 4, 32-35- SALMO: 117- SECONDA LETTURA: 1 Gv 5, 1-6 VANGELO: Gv 20, 19-31
.. . . La fede ci dà un occhio tale che riesce a discernere ciò che si muove secondo amore e ciò che si muove secondo volontà di potenza, secondo il principio dell' affermazione di sé. A volte, questa seconda legge rassomiglia alla prima. Ci sono molti egoisti che sembrano pieni d'amore e molti che sembrano chiusi, isolati, incapaci di fare qualunque cosa e sono pieni d'amore. Noi dobbiamo giudicare non con parametri desunti dal costume dominante, ma con la sapienza tratta dalla stessa parola del Gesù del Vangelo, la parola delle beatitudini. Questa sapienza ci libera dalla fuga dal mondo esterno. Quella tra l'esterno e l'interno è una divisione astratta. La società di cui facciamo parte ci modella l'anima, ci forma la coscienza, ci dà i principi primi. Come è facile che una vita interiore sia del tutto mondana e una vita spesa nella fatica e nel sudore, sia invece veramente interiore! Come abbiamo detto, quel che conta e decide della qualità della vita è l'intensità dell'amore e non la capacità di isolarsi e di astrarsi dalle miserie del mondo: il battesimo che abbiamo avuto è quello dell' acqua e del sangue, che è il segno di una oblazione di sé. Abbiamo allora il terzo momento, quello che, calandoci nel concreto delle contraddizioni storiche, ci rende più accessibile il discorso fatto fino ad ora, che rimane ambiguo, fino a che non passa attraverso il vaglio della prassi. Questa comunità, che rappresenta un po' come il modulo utopico che la coscienza ha seguito per venti secoli, questa comunità delle origini – forse ricostruita dallo scrittore sacro con un po' di indulgenza all'entusiasmo utopico che vive la resurrezione come esperienza di comunione, o, per usare la parola che è rimbalzata questa settimana sulle cronache dei giornali, di riconciliazione è straordinaria negli effetti e severa nelle sue regole: Ciascuno metteva tutto quello che aveva in comune e nessuno parlava di proprietà privata e non c'era fra di loro nessun bisognoso! Sono, come vedete, caratteristiche poco interiori! Noi oggi le diremmo strutturali, non accessorie ma costruttive. Ecco perché la riconciliazione cristiana non è mai una esperienza compiuta, è sempre da fare! Finché noi avremo, e l'abbiamo, la proprietà privata, come facciamo a riconciliarci? Ci abbracciamo e ognuno va a casa sua, chi ha e chi non ha. Il che per le persone «interiori» è una cosa secondaria. I credenti nella resurrezione erano realisti, non pensavano così. Anche il Signore aveva detto: «Se tu sei all'altare e ti ricordi che c'è qualcuno fuori che ha qualcosa contro di te, esci e va' a riconciliarti con lui e poi torna». Parola terribile. Se vediamo la terra come una città sola, e la comunità cristiana come una sola comunità, allora questa parola del Signore è talmente grave che la comunità dovrebbe subito disperdersi, assediata da un urlo che viene da tutti gli angoli del mondo: «io ho qualcosa contro di voi». Ci sono molti fratelli che hanno qualcosa da rimproverarci! Alcuni stanno morendo di fame. Stiamo a parlare di riconciliazione come se fosse un valore sperimentato sul serio. E invece esso non è reale se non passa attraverso la riconciliazione con tutti i fratelli che ormai ci stanno alle spalle, sono – per così dire – all'uscio di chiesa. Anche l'Africa è all'uscio di chiesa. Con questo discorso non voglio annullare la specificità sostanziosa di questa esperienza della prima comunità, voglio cogliere le leggi che reggono una comunità autenticamente cristiana, conforme a quel «pace a voi», che: scaturì dalla luce della resurrezione. Essa è piuttosto una realtà dell'orizzonte ultimo che non un fatto del passato a cui volgerci con nostalgia, è qualcosa che deve avvenire, la cui immagine è nell'anima di tutti noi, la cui esperienza anche noi abbiamo fatto, ma parziale, provvisoria come tutto ciò che è nel tempo mutevole. Queste cose, che più o meno ordinatamente vi ho detto, vogliono anche essere una risposta al problema che in qualche maniera è stato al centro della cronaca di questi due giorni. lo penso che fino a che non avremo abolito al nostro interno di comunità cristiana tutte le strutture della differenziazione, del potere, dell' autoritarismo, parlar di riconciliazione significa introdursi in una contraddizione tanto dolorosa quanto feconda. E quindi, benedetta l'occasione che porta alla luce queste contraddizioni. Ma non arriveremo mai a fare un discorso davvero evangelico finché i veri punti di riferimento della riconciliazione non saranno i bisognosi. «Non c'era fra loro nessun bisognoso». Finché non potremo dire questo, non ci è lecito parlare di riconciliazione, se non in un atteggiamento penitenziale, se non in un atteggiamento progettuale, che miri a far sì che non ci siano nel pianeta terra uomini bisognosi che hanno qualcosa da rimproverarci. Questa è l'ottica giusta, normativa, dentro la quale trova senso anche il resto, e senza della quale il resto può diventare un drammatico e vano esercizio di farisaismo.
Ernesto Balducci – da: “Il Vangelo della pace” – vol. 2